domenica 11 settembre 2011

Capitolo Terzo

Quella notte, Gualtiero ebbe visite inquietanti, dal mondo dei sogni; un caleidoscopio delirante, fatto di sangue e di sesso che vorticava confusamente nella mente, visioni di morte che fissavano la sua anima con occhi d’ombra. Sentiva un gran conflitto dentro di se’. I pungoli aguzzi del rimorso e della coscienza lottavano contro l’onnipotente delirio che, all’atto del dialogo con il demone, lo aveva attanagliato. Solo quando le sue spietate difese erano calate dall’abbraccio con l’omino del sonno, l’enormità del suo omicidio diventava un macigno pesante che gli gravava addosso. Aveva deliberatamente privato della vita un uomo, l’aveva fatto con convinzione e freddezza e ancora, nelle orecchie invase dal silenzio della sua stanza da letto, udiva il rumore del sangue di Zock che fiottava sul pentacolo. Per contro, anche l’immagine di Leuse, ammansiva il suo dilemma, la sensualità, scacciava la coscienza, lavandola via con la sua lascivia. Il ricordo, intenso e lancinante del loro fulmineo accoppiamento, lo deliziava e, nello stesso tempo, lo struggeva nel desiderio inappagato di un rapporto più duraturo e piacevole
. L’alba era sorta da poco, quando il maggiordomo anziano bussò nervosamente alla porta. La sua voce, tesa e grave, riusciva a filtrare attraverso il pannello lavorato senza essere rumorosa: -Signori? Signori, vi prego, svegliatevi, è urgente.- il sonno di Gualtiero si dileguò rapidamente, al suo fianco, Ofelia cominciava ad agitarsi sotto le coperte, il suo grembo, tondeggiante per il sesto mese di gravidanza, risaltava nel respiro, ora meno regolare.- Caro?- domandò con un filo di voce, Lui le accarezzò una guancia con due dita e scese dal letto, infilandosi una vestaglia di broccato, aprì. Il maggiordomo, vestito sempre impeccabilmente, anche a quell’ora, si scusò innanzi tutto del disturbo e dopo giustificò la sua inopportuna intrusione, comunicandogli la morte del Cardinale Zock. Gualtiero, in un lampo, ebbe chiaramente l’immagine del sangue che spruzzava nell’aria spessa del club Omnialudo. La sua reazione fu sicuramente scambiata per una forma di sgomento di fronte alla notizia appena ricevuta, il maggiordomo, dolente, aggiunse le proprie condoglianze.- La ringrazio, Alessandro.- rispose con voce grave – Per favore, avverta in ufficio che per oggi non potrò esserci, lasci detto all'amministratore Taget che troverà i programmi di produzione nel cassetto in alto a sinistra della mia scrivania e le quote d’investimento nella cassaforte piccola.- Alessandro prese nota su un piccolo taccuino e si accomiatò. Nel frattempo, Ofelia si era alzata. La sua gran pancia, rendeva la sua figura paradossalmente più gracile e minuta, forte era il contrasto fra le sue membra e il grembo; i lunghi capelli neri le incorniciavano il volto, rendendola particolarmente attraente, nonostante il frangente. Gualtiero le andò incontro, le prese le mani affusolate e l’invitò a sedersi, per comunicarle la notizia. Com’era nel suo carattere, Ofelia ne fu sinceramente addolorata, gli occhi s’inumidirono di lagrime e mille premure e mille preoccupazioni, fiorirono dalla sua bocca: - Dovrò mettere in contatto i miei genitori, zii e cugini, organizzare il rito funebre, arredare la stanza di culto..
-Faremo tutto, cara. Oggi ho rimandato tutti gli impegni. Sarò presente finché necessario.- lei gli elargì uno sguardo traboccante gratitudine, occhioni sgranati che galleggiavano in un pianto silente, luccicando alla luce dorata delle abat-jour. Gualtiero tirò fuori dall’armadio intarsiato il suo abito più austero, di buon panno nero e la palandrana lunga fino alle ginocchia mentre una delle cameriere preparava la veste da lutto di Ofelia.
Durante il viaggio da Cadmia a Gorreal, Gualtiero era sprofondato in un solido silenzio che lo schermava dalle amorevoli irruzioni di Ofelia. L’imminenza di qualcosa assolutamente madornale l’avvertiva in forma d’ansia. Lui era l’assassino che tornava a vegliare la sua vittima. Era la colpa che, camuffata d’innocenza, giocava beffe a tutto il mondo. L’idea di esser così abietto, mistificatore, falso di una falsità così assoluta da scagionarlo davanti a chiunque, lo sbalordiva e lo affascinava. Mai avrebbe creduto possibile che i peccati più colossali potessero essere sostenuti così facilmente. Era una contemplazione dell’infinito, che perde i suoi contorni proprio perché non era possibile ravvisarne i limiti. Nell’arco di una notte aveva tradito la moglie, la sua anima, si Era macchiato di un omicidio e aveva decretato un potere ineluttabile per se' e la sua progenie. Ofelia, il volto bianco come un foglio di carta immacolata, gli occhi sgranati e traslucidi, gettava sguardi timorosi in direzione del Turnàd, cercando uno spiraglio nel bastione silenzioso che lo cingeva con sorda determinazione. La donna si schiarì la voce, s’irrigidì sul sedile di cuoio e azzardò una domanda: - Gualtiero? Gualtiero.. Sai com’è morto?- Il Turnàd sembrò non aver udito le sue parole, rimaneva immobile e silente, apparentemente intento a osservare il paesaggio autunnale che sfilava dal finestrino della berlina di rappresentanza. Ofelia si pentì di avergli rivolto la parola e si ricompose, rigida, sul divano, stringendo le mani intirizzite nel manicotto di pelliccia che portava in grembo. Gualtiero rimuginò la domanda che gli era stata posta dalla consorte. Era infastidito, turbato e, a tratti, divertito. Per un istante, l’attraversò l’idea di spaventarla con la verità ma la stupidità della cosa lo dissuase; era un frangente grave e importante e lui doveva essere all’altezza della situazione. -Un’emorragia cerebrale. L’ha colto nel cuore della notte.
-E’ morto nella quiete e nella serenità del suo letto. Sono contenta di questo.- commentò lei con voce tenue. Gualtiero annuì lentamente con un cenno della testa, ripensando all’immagine di Zock, sgozzato che sanguinava sul pentacolo, le fiaccole che danzavano frenetiche, agitando ombre grottesche sulle mura di pietra umida.
Giunsero alla villa degli Zock quando il giorno si era appena consolidato. Già nel cortile antistante, numerose automobili stazionavano, ciascuna sorvegliata da un autista in uniforme. Sull’uscio principale, un maggiordomo in frac, introduceva gli ospiti. La prozia di Ofelia, avvolta in un alone di tulle nero, andò incontro alla parente con passo malfermo e la voce rotta. Nel salone, Gualtiero, riconobbe molti volti che aveva lasciato, intimoriti, poche ore prima. Inguainata in velluto nero, c’era anche Leuse, i capelli severamente tirati all’indietro e raccolti in una crocchia elaborata, lo sguardo glaciale puntato prepotentemente sulla sua persona. Gualtiero rimase fermo, squadrando i presenti che simulavano cordoglio e costernazione con consumata esperienza. Una cameriera con un vassoio, gli offrì un corroborante. Col bicchiere in mano e il passo prudente, Gualtiero si mosse fra i presenti fino a raggiungere Leuse. Lei era in piedi, l’anca sinuosa appoggiata ad un clavicembalo. Fu colto da vertigine. In un solo, sinuoso battito delle ciglia della donna, l'ambiguità di un incubo che gli aveva turbato il breve sonno, divenne confutazione della colossale verità. Gualtiero, in quell’istante di assoluta e spietata lucidità, realizzò definitivamente, senza ombra di dubbi ed estraniamenti l’impatto delle sue azioni, in altre parole un contrasto doloroso, sordo all’aria che respirava, agli odori che sentiva, al soffice tappeto che calpestava, tra l’enormità dei peccati di cui si era macchiato appena la notte precedente e un’allucinata indifferenza, riverberante ancora delle consolanti parole che il defunto assassinato gli aveva paternamente elargito al loro primo incontro, anticamera della sua dannazione. Leuse non cessava di studiarlo con i suoi occhi preziosi; ogni secondo che Turnàd era squadrato, osservato, a tratti oscenamente fissato, non era un semplice e prosaico guardarsi fra due adulti interessati reciprocamente, era un messaggio empatico, una complicità silenziosa, coperta dal sangue e dalle tenebre, saldata indissolubilmente da un segreto orrendo e lei, musa lasciva, ossessione femminea e sensuale che di Turnàd i sensi dominava, nonostante la maschera luttuosa che ostentava fra i presenti, lasciava trasparire davanti a Gualtiero l’assassino, una sorta di terrificante divertimento davanti alla situazione che stavano condividendo.
Gualtiero Turnàd fu avvicinato da una donna ingioiellata come un’icona luccicante, era vecchia ma non rassegnata all’impietosa patina di rughe che il tempo, inderogabile, le aveva intessuto con pazienza certosina. Un cammeo in avorio faceva bella mostra di se’ sul petto ingabbiato in un rigido busto, Gualtiero si concentrò sull’oggetto per non fissarsi sulle labbra raggrinzite e marcate con un rossetto porporino. Era una raffigurazione della croce cattolica draconiana: costituita da una spada, una bilancia e una corona di spine. Solo dopo aver ragionato un istante, riconobbe finalmente la sorella maggiore di Brunello Zock, Magdalena Zock, una figura rinsecchita al punto che probabilmente non aveva più lagrime da versare. Con voce roca, a tratti fiebile, gli stava parlando assieme: -… Nella notte. Come sempre aveva sognato, una morte serena, grata, degna di un uomo della sua bontà.- Gualtiero non riusciva a credere a una sola parola di quelle che erano elargite come una vana consolazione di fronte all’irreparabile. Al suo fianco si era materializzata Ofelia, un’espressione contrita, le mani sul grembo in atteggiamento protettivo. Baciò la parente sulle guance flosce e le parlò dolcemente, preoccupandosi di farla sentire circondata da un ideale abbraccio di solidarietà da parte di tutti i presenti. Gualtiero, seguitava a guardarsi attorno, osservando distrattamente i mobili ricoperti da centrini ricamati e la vasta panoplia di oggettistica sacra che faceva bella presenza di se’ in ogni angolo: crocifissi, ritratti di santi e martiri, icone; sotto le luci calde delle lampade che spuntavano dalle pareti broccate, come funghi velenosi sulla rugosa corteccia di alberi secolari. Gualtiero si sentiva ospitato in un convento di clausura, elegante e ricercato ma pur sempre oppressivo e angosciante. Soprattutto, al di sopra delle sue distratte osservazioni dell’ambiente domestico che aveva ospitato la sua prima vittima, lui cercava la figura flessuosa di Leuse, che era sempre là, ferma, in piedi vicino al clavicembalo che dominava il salone. Per un istante, una calda, irruente onda di desiderio gli accelerò i battiti cardiaci e immagini forsennate del loro fulmineo amplesso, sfilarono in un caleidoscopio conturbante davanti ai suoi occhi. Per un solo, fuorviante, imperituro battito di ciglia, Gualtiero si sarebbe completamente dimenticato di tutto il lutto che lo circondava, avrebbe afferrato quella figura dolorosamente sensuale e l’avrebbe nuovamente posseduta, con brama e lussuria, incurante della forma, del dolore vago che aleggiava tra i mobili laccati e gli altarini falsamente benedetti.
Leuse incrociò ancora il suo sguardo. Dietro la sua espressione grave, gli occhi tradivano una luce di complice divertimento. Col bicchiere fra le dita affusolate, il bordo accostato alle labbra accentuate da uno scurissimo rossetto, la sua sottile lingua rosea guizzò sulla superficie della bevanda, come una bellissima serpe che lappasse una ferita. Gualtiero represse un brivido di turbamento e si sforzò di concentrare la sua attenzione anche sugli altri astanti. C’erano volti noti. E c’erano volti che aveva visto poche ore prima, in un luogo che non doveva esistere, dove si facevano cose che non potevano essere concepite. Riconobbe il grasso e flaccido duca di Naterra, divoratore d’infanti, che in tuba lucida e frac dalle lunghe code, conversava gravemente con il Baronetto Zavi, rampollo di una nobiltà legata alla casa reale, brillante e promettente giovane avvocato, bello, i tratti delicati, baffetti sottili come ciglia di fanciulla, mostro abominevole, capace di efferatezze inimmaginabili quando la belva che, quieta, alla luce del giorno, sonnecchia nelle buie grotte della sua psiche, si risveglia in tutta la sua furente violenza selvaggia, senza alcun freno o inibizione di sorta.
Ofelia si era seduta su un divanetto rivestito di raso viola, continuava, amorevole e premurosa, a confortare la luttuosa prozia. Qualcuno, sedutosi al clavicembalo, intonò le prime note di una sonata stridente; la musica, ora, ammantava la scena con una cappa grottesca, dove tutti i presenti, si muovevano al suo interno come marionette meccaniche, eseguendo movenze, proferendo frasi e il cui tutto appariva assolutamente artificiale e programmato. Un invisibile giocattolaio, aveva dato la corda al teatrino con una chiavetta fatta a strumento. Gualtiero si ritrovò a muoversi in mezzo a quelle comparse come un sonnambulo, con passo lento, sguardo perso: un estraneo disorientato che improvvisamente, ha dimenticato il suo ruolo nella recita, uno strumento privo di spartito che ricerca disperatamente un’armonia con il resto dell’orchestra. Si muoveva tra i presenti scambiando cenni del capo, strette di mano e commenti mormorati, la musica del clavicembalo cominciava ad infastidirlo e si guardava continuamente attorno senza nemmeno sapere che cosa cercare. Andò a sedersi una poltrona di marocchino rosso, un cameriere gli offrì un secondo bicchiere di corroborante, che il magnate accettò silenzioso. Sprofondato tra i freddi cuscini di pelle, si sentiva leggermente meglio, dal suo arrocco, scrutava le altre pedine, studiandone i movimenti e la complessa armatura che schermava la verità dietro le loro figure. Lui ne era parte integrante, era un analogo, confratello, unito nel sangue, nella morte e nella cupidigia e la falsità che stava colossalmente ostentando, diventava un simbolo che lo aveva marchiato inderogabilmente. Assassino tra gli assassini, al cospetto di una delle vittime. Suonò una campana. Un servitore in livrea si affrettò all’ingresso. Gualtiero udì uno scambio di poche, ermetiche parole, tra le quali distinse un nome: deSpad. Udì passi pesanti e regolari risuonare sul parquet. Un uomo e una donna furono introdotti nel salone. La prozia di Ofelia si alzò per andare loro incontro. Gualtiero li studiava con insistenza, sfiorando l’indiscrezione nell’osservare la coppia. Il cognome udito, gli aleggiava nelle orecchie come il sussurro di un fantasma, qualcosa che era ben tangibile ma al contempo lontano e non bene identificato. Ammirò la donna. Era alta, giunonica, con i capelli di un rosso scuro che in boccoli pesanti, le ricadevano sulle spalle splendidamente tornite. Il volto era magro e questo guastava l’avvenenza generale della sua persona, i tratti risultavano induriti, severi e il grigio ferroso degli occhi acuiva quella sensazione. Malgrado ciò, si ravvedeva in ella, una famigliarità che faticava a riconoscere. La donna attraversò il salone con passo altero fino a Leuse, la quale abbandonò la sua posizione di comando dal clavicembalo e abbracciò la nuova venuta salutandola con calore. Gualtiero comprese il legame di parentela che accomunava le due donne. Poco dopo, vide giungere l’uomo, il marito, presunse. Era anch’egli una figura imponente, alto, spalle immense, il portamento rigido e impettito. Aveva folte basette castane, un bel naso aquilino, occhi fermi e severi. Indossava l’uniforme sociale dei Dragoni reali, nera con una doppia fila di bottoni d’oro, spalline gallonate, stivali lucidati a specchio, la sciabola portata in un fodero luccicante con cordoni di velluto blu intenso. Teneva il cappello infilato sotto un braccio e reggeva un calice mezzo pieno. In lui, Gualtiero, non ravvide pantomime di sorta. Il militare aveva l’espressione amara di chi conosceva la morte e come tale ne ostentava un rispetto sofferto e riverente. I suoi occhi, dello stesso caldo castano dei morbidi capelli ondulati, erano sì duri e freddi ma anche aperti e diretti, il suo, era lo sguardo di chi era abituato a mostrare tutto, senza timori, con la stessa scriteriata incoscienza di una carica di cavalleria.
Gualtiero attese con nuova impazienza che Leuse finisse i convenevoli con la parente e appena libera, ansiosamente le andò vicino per parlarle. -Posso sapere chi era quella donna?- lei gli voltò le spalle volgendo la sua attenzione verso un grosso ritratto del defunto cardinale.- Perché lo vuoi sapere?
-Non li conosco anche se il loro nome mi è famigliare.- Leuse sospirò: - Loro sono un’altra razza.- una pausa –Lei è Caterina degli Atlantis. Mia cugina prima. Ha sposato il Marchese deSpad. E’ questo il nome che ti ha colpito?
-Sì. Chi sono?- insistette lui. Leuse sorrise debolmente: -Chi sono? I deSpad sono una famiglia della Frolizia, nobiltà antica, legata alla casa reale da secoli. Difensori del regno e della chiesa. Rigidi, austeri. Soldati.- Gualtiero socchiuse le labbra, scaldate dall’alcool ma Leuse lo precedette: - Non sono membri del nostro club. Perché tutto questo interesse?- Turnàd non rispose, seguitava a osservare la rigida figura del marchese deSpad, rendendosi conto, in quel momento, che neppure lui sapeva rispondere. Da un momento all’altro, nonostante il gorgo di pensieri che gli vorticava nel profondo, anche se ossessivamente fissato da immagini mentali di sesso e di morte, di coscienza e di spietatezza, come la coppia di marchesi aveva messo piede nella magione degli Zock, un interesse assurdo, divorante, istantaneamente morboso l’aveva colto. Le parole di Leuse, teoricamente, avrebbero dovuto allontanarlo dai due nuovi arrivati, troppo diversi, apparentemente, dallo spirito famelico e lussurioso che stava attraversando l’anima di Gualtiero, come una nuova, misteriosa energia.
Il marchese poggiò con gesti riverenti la sua sciabola sopra un lungo cuscino di velluto rosso, posato sopra una mensola, sulla parete vicina all’ingresso della camera ardente, si fece il segno della croce ed entrò. Gualtiero, senza aver perso di vista i gesti e le movenze dell’altro, comprese che non aveva ancora visto la salma della quale era il diretto e immondo responsabile. Molto formalmente, si accomiatò da Leuse baciandole la mano eburnea e permettendosi un fugace tocco della di lei epidermide con la punta della lingua. Il gesto, insieme trasgressivo e segreto, provocò in lui un aumento della salivazione e il focolare di un’eccitazione che gli aumentava follemente le palpitazioni. Ancora col bicchiere fra le grosse mani, Gualtiero si avviò in direzione della camera ardente, abbandonò il calice su un tavolinetto di ciliegio laccato e si affacciò, con le palpitazioni che mantenevano la loro folle ritmica emotiva, passando un ideale testimone tra l’eccitazione erotica che il contatto con Leuse gli aveva donato ad un nervosismo tormentoso per le insopportabili incognite che l’idea di rivedere la sua vittima gli provocava.
Il corpo mortale del cardinale Viro Brunello Zock giaceva in posizione supina, tra le candide lenzuola di un giaciglio di ebano intarsiato. Indossava la serie completa dei suoi paramenti e gradi religiosi, una tunica porporina con inserti di broccato sontuoso, oro zecchino sulla tiara, sulla mitria e un crocifisso ingioiellato fra le dita gelide e artigliate fra di loro. Il suo volto, sbiancato dal sonno eterno e dalle soluzioni conservanti che gli erano state trasfuse in abbondanza, si mostrava ai vivi in illusoria serenità. I chirurghi funebri, avevano abilmente dissipato le sgradevolezze del rigor mortis, manipolando con maestria tendini e muscoli fino a far assumere un’aura di beatitudine al posto dello strazio che altrimenti si sarebbe impresso dopo la violenza della sua dipartita dal regno dei vivi. La camera era spoglia, muri nudi, di bianco abbacinante piastrellati e miriadi di lumini che opacamente si riflettevano sulle lisce superfici asettiche. Altre lampade, in acciaio inossidabile, tonde come oblò aperti sullo sfolgorio di una luce abbacinante, creavano un contrasto doloroso con l’aria cupa e le lampade fioche che dominavano il resto della casa, ma era un intervento indispensabile, perché nella mistica del culto dei morti, nella religione Cristiano Cattolico Draconiana, il deceduto, doveva esser vegliato in un ambiente essenziale, pulito, bianco e inondato di luce brillante, affinché la sua anima, avesse segnata la via verso la beatitudine della dimensione divina, ruggente di energia folgorante, potenza incommensurabile, possente ed esplosiva rivelazione finale. Secondo il rito, il corpo avrebbe così giaciuto per tre giorni e tre notti, dopo di che, l’involucro, ormai abbandonato dall’anima richiamata all’assoluto, sarebbe stato rinchiuso nella stanza funerea, dove il corpo, simulacro e rappresentanza della tangibilità umana sul mondo creato da Dio, sarebbe stato composto, nei secoli dei secoli, nel pieno della sua terrena bellezza, sempiterno ricordo di quel che di bello e di eccelso era stato e aveva compiuto durante la sua vita. Gualtiero provava un vivo disagio, non per la presenza del cadavere ma per quella del vivo che, deferente, contemplava la vittima con il capo chino e le mani giunte in basso. L’azzardo di un passo, produsse un suono amplificato dall’eco della sala e il militare, assorto, strappato alle sue meditazioni, spostò la sua attenzione verso il nuovo arrivato. Gualtiero colse l’occasione, avanzando di alcuni altri passi e porgendogli la mano. -–Sono il cavaliere del lavoro Gualtiero Turnàd. Sono mortificato. Non era mia intenzione disturbare la sua contemplazione.- l’altro s’impettì, battè i tacchi con uno schiocco secco e si qualificò, stringendogli la mano: - Colonnello Leone deSpad, comandante del quinto dragoni.- seguì una pausa, durante la quale i due uomini si osservarono con curiosità. Gualtiero notò con un certo fastidio che il suo interlocutore era almeno di una spanna più alto di lui e quella differenza fisica, unita all’austera uniforme che l’altro indossava con impettita disinvoltura, contribuivano a renderlo, nel complesso una figura imponente e autoritaria, forse, sul momento, più di quella che normalmente ammantava la figura di Gualtiero. - Turnàd.. Le officine meccaniche? Il cannone Turnàd?
-Precisamente.
-Splendida arma.-commentò telegrafico il colonnello. Gualtiero, che non aveva assolutamente intenzione di intrattenere una conversazione mondana sulle rispettive fortune di famiglia, cercò di deviare il discorso avvicinandosi al giaciglio. Nonostante i massicci interventi, riusciva a leggere il dolore, la sorpresa e la lotta per la vita che avevano plasmato e riconfigurato i tratti somatici del cardinale. Come un messaggio criptato, lui vedeva trasparire la realtà che era appartenuta al vuoto fantoccio di carne davanti al quale si trovava ora. – Lo conosceva bene?- domandò discretamente il colonnello deSpad.
-Era un parente di mia moglie. Lui ci aveva sposato e continuava a frequentare la nostra magione in qualità di parente, amico e consigliere spirituale. Una presenza indimenticabile.
-Comprendo
. -Lei? Come lo conosceva?-stavolta, Gualtiero faceva fatica a celare l’autentica curiosità che nutriva nell’interrogativo che aveva appena rivolto. DeSpad appoggiò una mano dalle dita forti e allungate sul bordo della testiera del letto. – Anche lui ci aveva sposato. - disse il militare. -L’avevo conosciuto in occasione di un Sinodo dei cappellani militari. Era venuto in visita al mio reparto e tra galantuomini c’eravamo subito trovati.- Gualtiero represse una risata di scherno. Viro Brunello Zock un galantuomo? Era un perverso mentitore peccaminoso e come tale, non riusciva a vedere altro in lui.
-Ho notato che la sua consorte si trova in stato interessante.- osservò l’ufficiale. -Che cosa c’entra?- chiese il Turnàd, curioso di osservare la reazione del suo interlocutore, di fronte a una domanda così diretta e, a tratti, imbarazzante nel frangente. L’altro non si scompose, continuando ad osservare la salma, rispose: -Una portatrice di vita al cospetto della morte. Vi vedo una continuità molto bella che, sono sicuro, il nostro Cardinale avrebbe certamente apprezzato.- Gualtiero tacque, lasciando che il suono delle parole appena espresse, esaurisse l’eco nella sala. Turnàd si schiarì la voce con un grugno sommesso, s’avvicinò al Colonnello e domandò, con sincero interesse, se si Era a conoscenza dell’allestimento scelto per la camera funebre del Cardinale. –Purtroppo la dipartita è stata troppo improvvisa, mia moglie ed io abbiamo lasciato la casaforte in Frolizia dove attualmente sono alloggiato subito aver ricevuto la tragica notizia. Quando mi ha visto, eravamo appena arrivati. Sono in possesso di scarse informazioni a riguardo.- Leone deSpad appariva saldamente trincerato dietro un sincero cordoglio, che si premurava di trasmettere dietro una conversazione ermetica e per nulla interessante. Gualtiero, per il momento incapace di trovare appigli per proseguire la conversazione e iniziare una conoscenza più approfondita, provò un moto di stizza che represse a fatica, limitandosi a scrutare, torvo, di sottecchi, il reticente interlocutore, sprofondato nella sua personale veglia alla salma. La figura del militare spiccava nel bianco virginale della camera come un’ombra su una parete nuda, sul pavimento di piastrelle lustrate a specchio, la sua sagoma, per un gioco di riflessi, sembrava sospesa su di un vuoto non identificato. Il Turnàd represse un primo impulso a lasciare l’anticamera funebre dato che non poteva accettare una sconfitta così smaccata nei confronti di un proprio obiettivo.
Cambiò tattica. Si avvicinò alla salma e con gesto lento e delicato ne accarezzò una guancia fredda e asciutta, color del ventre di un pesce appena pescato. La sensazione al tatto Lo lasciò, in un primo momento, indifferente, sotto i polpastrelli, poteva benissimo avere una pietra levigata. Analizzando meglio il frangente, invece, si accorse che un’emozione lontana, crepuscolare, iniziava a baluginargli nel cuore: la luce morente di uno sgomento che tendeva ad allontanarsi gradatamente ma inesorabilmente, un peso morto che Era inghiottito dalle acque melmose di un laghetto moribondo, verso l’oscurità di un fondo limaccioso. Gualtiero Turnàd si rese conto che quel peso remoto Era la sua pena per il morto. Una pena dall’amaro sapore della commiserazione per quel grasso uomo di chiesa, al quale la stessa chiesa non aveva saputo compensare la schiavitù della sua natura di pederasta, sodomita e dannato. Un piccolo, grasso peccatore, morto d’una morte più grande di quanto potesse aspettarsi e ipocritamente, accompagnato verso il suo eterno supplizio, con tutti gli onori e i lussi che in vero non doveva meritare. Turnàd sorrise alle ingiustizie che incrostavano il mondo come un morbo raccapricciante poteva intaccare l’integrità della carne di un fanciullo. Nulla Era integro. Neanche deSpad. Pensò Gualtiero insidioso, studiando il volto concentrato del soldato.
Indugiando nella sua carezza, attirò l’attenzione dell’altro, che inarcò un folto sopracciglio e gli parlò: - Mi perdoni. Se preferisce la lascio solo..
-No. – una pausa, studiata.- Di fronte alla fulmineità della morte, talvolta fatico a capacitarmi.
-Capisco.- deSpad si allontanò dal giaciglio e passeggiò brevemente, Lo sguardo perso nell’aria immacolata.- Io ho dovuto accettare velocemente la convivenza con la morte. Perché l’ho vista in faccia numerose volte in molteplici aspetti.- si fermò davanti a una grossa croce draconiana in bronzo, fissata alla parete dirimpetto alla posizione della salma con massicci bulloni di acciaio inossidabile.- Sono un reduce- specificò –Le guerre coloniali. Campagne d’Agria e Caprina. Inevitabilmente, il mio reparto subì perdite, come tutti gli altri; anzi, Mi piace pensare e cullarmi vanamente nella convinzione che ha avuto meno vittime d’altri. Questo, naturalmente, è un misero palliativo, un linimento inefficace che non cura le cicatrici che questa mia responsabilità comporta; quando mi è stato possibile, ho sempre presenziato ai riti funebri dei miei soldati morti. Ufficiali, sottufficiali o truppa che fossero. Il senso della perdita, nonostante tutto, malgrado anche la Fede, è sempre lancinante.
-In questo, Zock le era stato d’aiuto?
-Assolutamente. Mi aveva insegnato ad accettare questi dolori come penitenze, il sapore amaro che talvolta il comando lascia. Un male inevitabile e indissolubilmente legato alle nostre posizioni. Un uomo prezioso.- Gualtiero represse un sorriso tutto denti, famelico e imponendosi una curva greve sulle labbra, commentò: - Non s’immagina quanto.
Attraverso il candido uscio della camera ardente, Gualtiero Turnàd, avvertì il mormorio degli ospiti nel salone, aumentare d’intensità. Inarcò un sopracciglio, incuriosito e mosse alcuni passi verso le porte, per meglio cogliere l’origine del trambusto. Nello stesso istante, le ante furono spalancate da uno dei maggiordomi e Ofelia, premurosa, le mani nervosamente intrecciate fra di loro come un groviglio di pallide stecche, gli si mosse incontro, passettini affannati, un’espressione ansiosa sul volto incorniciato dal tulle nero dell’abito da lutto. –Caro- disse –E’ arrivata proprio ora la delegazione degli Esicasmici. Un loro superiore dirà messa per Brunello.- Gualtiero annuì con un movimento del capo lento ed accentuato, dopo, si volse indietro, rivolgendosi a bassa voce, al colonnello deSpad: -Chi sono?
-Uno speciale ordine di sacerdoti. Zock proveniva dalle loro fila.
-Non li conosco. Ignoravo perfino la loro esistenza.
-Esistono da oltre mille anni. Non si sono mai fatta gran pubblicità al di fuori delle cerchia ecclesiastiche. E’ l’ultimo ordine esistente d’ecclesiastici praticanti una forma di meditazione trascendentale, acquisita dalla Chiesa ai tempi delle sue espansioni in oriente. Posseggono particolari licenze tra cui il diritto d’esorcismo, la gestione delle rappresentanze estere e, soprattutto, facoltà di scomunica.- Gualtiero fissò ancora una volta la sua vittima, chiedendosi quante altre cose, quel vecchio pederasta gli aveva tenuto nascoste. –Sarà meglio lasciare la camera.- suggerì il colonnello. I padri vorranno vegliare il loro confratello.
Rientrarono nel salone, dove, nel mentre, il clavicembalo aveva cessato la sua musica discordante. I vari partecipanti, erano raccolti in piccoli crocchi mormoranti, intercalati dal rumore dei bicchieri che erano riempiti da vino e liquori. Ofelia era seduta a fianco della prozia e assieme a loro, vide un religioso, alto e talmente magro da rasentare la secchezza. Vestiva una tunica porporina con un corsetto di velluto vero. Tre croci draconiane, in oro luccicante, scintillavano sul petto come medaglie sulla pettorina di un generale. Il prete aveva un volto ossuto e scheletrico, con gli occhi profondamente incassati, un naso affilato e radi capelli grigi. Le mani, adunche, stringevano un rosario di peltro dalla struttura elaborata, con i grani cesellati in forma di teschi e di rose sbocciate. Ofelia vide il consorte in piedi, al centro del salone e richiamò la sua attenzione con mosse rapide del fazzoletto che continuava a stringere come un appiglio alla salvezza della sua anima. Gualtiero fu tentato di ignorare i richiami che lo stavano silenziosamente bersagliando poi, avanzò con studiata solennità fino al trio costernato. Non vedeva Leuse.
-Caro? Caro, voglio presentarti monsignor Hobelio.
-Monsignore..- mormorò il Turnàd, studiando meglio il religioso. Gli occhi del Cardinale avevano una freddezza che raramente, Gualtiero, rammentava di aver incontrato. Hobelio fissava il mondo attraverso un’iride color del ferro. -La perdita di un fratello è sempre un’occasione di dolore.- sentenziò con voce bassa e suadente –Ma la fede- proseguì, rivolgendosi a tutti coloro che apparivano a portata d’orecchio –Ancora una volta e ancora, ci dimostrerà la forza e l’amore che può donare al singolo credente.- una pausa, nella quale sorseggiò un vino color rubino. –Una straordinaria trasformazione, che muta la sofferenza in sollievo, in ultima analisi, il dolore in gioia; una gioia unica e difficilmente spiegabile, un’autentica forza che stronca la fiacchezza, tempra l’animo, forgia un popolo che non teme la morte, perché la morte è solamente transizione. Un’ascesa verso il mito e la beatitudine, l’illuminazione della luce divina, fonte d’eternità e assolutezza.
Gradatamente, la voce del padre esicasmico, s’era alzata di volume fino a riempire la sala tutta e calamitando l’attenzione di tutti i presenti. Gualtiero si scoprì intento a fissare i volti di sua moglie e della parente, totalmente rapiti nel breve monologo del nuovo arrivato. Guardandosi nuovamente attorno, rivide Leuse, seduta su una seggiola di ebano, le gambe accavallate, una caviglia, inguainata in velate calze nere che faceva maliziosamente capolino tra l’orlo della lunga gonna e una scarpa di lucida vernice. Il Turnàd, in quel preciso istante, avrebbe voluto essere inginocchiato ai suoi piedi, intento a baciare, adorante quella caviglia. La visione fu spezzata dal battito delle mani della padrona di casa. Altre porte si spalancarono. Qualcuno, seduto all’organo di casa, intonò una solenne marcia religiosa, accompagnando l’ingresso degli Esicasmici.
Entrarono in doppia fila, con precisione geometrica e sguardo fisso, perso verso un punto distante anni luce dal materialismo del mondo che temporaneamente li accoglieva. Indossavano tuniche color del sangue, paramenti neri, cappucci neri. Erano silenziosi a parte il fruscio delle vesti, i passi ovattati sui folti tappeti, il vago tintinnare dei rosari. Gli ospiti accennarono inchini riverenti e fecero spazio con un movimento spontaneo e contemporaneo, come un’involontaria coreografia, provata nell’intimità dell’inconscio. Sotto le luci fioche della casa a lutto, le figure degli Esicasmici proiettavano lunghe ombre coniche. La loro presenza era sottilmente inquietante. Senza scomporre la loro formazione e capitanati da Hobelio, entrarono nella camera ardente. Una luminosità sfolgorante gettò pennellate di luce chiara nel salone. Tutti gli invitati si genuflessero, mani giunte all’altezza delle labbra, le teste chine, come i più umili degli schiavi. Fioca come la fiammella di una candela moribonda, la Preghiera del Trapasso, fu intonata In un coro monocorde; su quelle note ipnotiche e cadenzate, gli Esicasmici uscirono dalla camera, trasportando la salma, perfettamente bardata.
Gualtiero Turnàd, dalla sua posizione, vide il corpo di Zock veleggiare sopra di lui, sospeso, a bordo del suo giaciglio, su un mare di tuniche rosse. La curva della sua bocca carnosa, appariva storta, sardonica addirittura, come un monello che sapeva di aver combinato qualcosa che gli altri non sapevano. Ridi vecchio coglione, pensava fra se il Turnàd, ridi pure perché una volta che avrai raggiunto i gironi dell’Inferno, ogni tuo ghigno sarà ripagato con millenni di dannazione.
Il corteo passò oltre i fedeli inginocchiati e quando Gualtiero fu sicuro di non essere a portata di orecchie scomode, bisbigliò una domanda al Colonnello deSpad: -Perché questa uscita anticipata?
-Solamente per la messa solenne nella cappella di famiglia. Un privilegio della sua posizione terrena.- Il Turnàd seguitò a sbirciare sommesso e nascosto la breve processione che attraversava, solenne il salone e usciva dalla villa per raggiungere la cappella degli Zock. Lentamente, gli invitati al cordoglio si misero sulla scia silente.
La chiesetta era stata eretta ducento anni prima da un devoto antenato, costruita In segno di gratitudine per certi non ben identificati “magnanimi favori” che l’Arcipapa dell’epoca aveva concesso. La sua struttura di pietra grigia, macchiata da formazioni di licheni scuri su tutta la superficie era di forma circolare, gusto classico. Una corona di colonne portanti circondava il corpo principale, sormontato da una cupola di spicchi di vetro macchiato dal tempo e dal filare di abeti resinosi che ne delimitavano il perimetro meridionale. Un vialetto di ghiaia immacolata accompagnava fino ad essa attraverso i prati maniacalmente rasati tutti i giorni dai giardinieri di famiglia. Sui muri, s’indovinavano ancora bassorilievi rappresentanti scene dalla Sacra Enciclopedia: Gualtiero distinse la Deflagrazione, ovvero la creazione del tutto dall’esplosione nel Nulla dell’energia Divina, la Prima Gloria, cioè la Creazione del Mondo, la Seconda Gloria, la creazione degli uomini e delle donne, l’Investitura, la legittimazione del Primo Monarca. Non poté fare a meno di notare la pregevole fattura dei lavori, eseguiti con cesello e passione maniacale. Un moto d’invidia, distratto, assolutamente incondizionato, lo colse, pensando che la sua cappella di famiglia, aveva neanche un secolo.
Rimuginando su quella, In definitiva, labile questione, si ritrovò all’interno dell’edificio religioso, Ofelia al suo fianco, occhi enormi, volto magro e minuto, ventre reso esuberante dalla maternità In corso. Davanti a lui, il deSpad, le spalle possenti, la schiena ampia, le onde morbide della sua capigliatura castana. Non vedeva Leuse. Sua moglie rabbrividì nell’atmosfera umida della chiesa. Dentro stazionava un’oscurità che sembrava radicata come le fondamenta secolari che sorreggevano il luogo di culto; una fioca illuminazione era fornita da un tremolante firmamento di candele che affollava dei telai di ferro battuto, murati direttamente nella cappella stessa, mentre dal grosso lucernario della cupola, filtrava una luce pallida, che cadeva In un perpendicolo quasi perfetto, proprio al centro dell’altare di marmo ellittico. L’altare poggiava su una piattaforma delimitata da bassi gradini ricoperti da tappeti porporini. I vetri delle strette finestre monofore, erano ornati da mosaici multicolori, raffiguranti Profeti, Teologi e Santi, tutti il più imparentati possibile con la famiglia Zock.
Gli invitati alla cerimonia, occuparono silenziosamente posto sulle panche ricoperte da piccoli cuscini neri, mentre gli Esicasmici deposero la salma ai piedi dell’altare. Il Cardinale Hobelio, prese posizione sul pulpito, di fronte a lui, una copia rilegata In marocchino, della Sacra Enciclopedia. Quando il religioso fu certo che anche l’ultimo degli invitati era seduto e silente, aprì il corposo volume, sfogliò alcune pigne crepitanti e si schiarì a sua volta la voce, producendo un rumore molto simile: -Il dolore della perdita- esordì con voce forte e chiara –E’ un aspetto indissolubile della debolezza umana, ma è anche una forma di consapevolezza della propria nullità di corpo al cospetto dell’eterno. E’ un avvertimento, In ultima analisi, che il nostro creatore, ha deposto nei nostri animi, per ricordarci la transitorietà di questa esistenza e di come essa sia costantemente minata dal peccato. Il peccato è la principale arma del Nemico, esso è persistente ed insidioso, perché persistente ed insidioso è il Nemico.- un Esicasmico, accese dell’incenso all’interno di un aspersorio a forma di teschio, reggendolo fra le mani color della cera, percorse il perimetro della cappella, spargendo l’aroma acre e pungente fra tutti i presenti, gli occhi del teschio ardevano di una luce tremante, come se due pozze di lacrime fiammeggianti pulsassero nelle profondità delle sue orbite vuote. I fedeli si inginocchiarono, le mani giunte, le dita intrecciate saldamente, la fronte china a toccare il bordo delle mani.
-Tutti insieme, recitiamo ora la Conoscenza del Dolore.- invitò Hobelio, levando le braccia In direzione della croce. In coro, le voci intonarono la breve, sofferente preghiera funebre, alcuni, secondo la tradizione più fondamentalista, accompagnavano la cadenza con leggeri colpetti del capo sulle mani giunte. Gualtiero Turnàd, recitava meccanicamente, lanciando occhiate laterali per sbirciare le movenze degli Esicasmici, il portatore d’incenso, proseguiva la sua camminata circolare mentre gli altri si erano inginocchiati attorno alla salma, pregando con i loro movimenti ondeggianti; si stava domandando, cosa avrebbe detto il demone che aveva fatto evocare, se lo stesse osservando In quel momento. Sono un discolo. Si disse Gualtiero dominando un sorriso, un birichino, un monello dell’ultraterreno che prega e pratica per la salvezza della sua anima e uccide e tradisce e si danna per il piacere del suo corpo. …E QUINDI TI PREGO O MIO CREATORE, FAI CHE LA CONOSCENZA DEL DOLORE SIA LA MIA FORZA PER LA PRETESA DELLA BEATITUDINE. AMEN
. La preghiera era finita, i capi li levarono verso il pulpito, occhi, fissarono Hobelio abbassare le braccia e appoggiarsi al leggio, proteso verso la platea: -..E quindi ti prego o mio Creatore, fai che la conoscenza del dolore sia la mia forza per la pretesa della Beatitudine.- Ripete con tono accademico la strofa conclusiva. -Vi invito ora più che mai, a meditare su queste ultime parole, perché la loro potenza si estrinseca proprio sotto il lutto. Il corpo del nostro fratello ha cessato di vivere, la mano perentoria e fulminea della morte lo ha privato del dono supremo del Creatore e lo ha separato dai suoi cari, dai conoscenti , da tutti noi. Era un uomo di chiesa, un giusto, un sapiente, un Esicasmico, al quale la Chiesa, ha chiesto i suoi pregi per il bene supremo. Ha sicuramente conosciuto le gioie della fede e In ultimo, il Dolore. Ora egli è sulla strada della beatitudine, sta attraversando il mistico corridoio di luce, la sua anima sta ascendendo all’eternità del paradiso del Creatore. Soltanto la più indescrivibile delle gioie per lui, per sempre. Noi soffriamo perché siamo esseri umani, ma la fede, nella sua inossidabile saggezza, ci afferma che dopo, forti, In essa, dobbiamo sostituire la sofferenza alla gioia, gioia per un fratello che si ricongiunge al cospetto di colui, tutta la sua vita terrena ha sacrificato, con rinunce che non tutti gli uomini sono disposti a subire. Dobbiamo essergli riconoscenti, per quel che ha fatto, per tutto quel che è stato il Cardinale Viro Brunello Zock.- l’organo a canne, posizionato alle spalle dell’altare, intonò un “La Gioia del Creatore” e tutti i presenti si levarono In piedi applaudendo la dipartita del defunto. Un prete, tirò dei cordoni dorati e i tendaggi che ricoprivano la cupola di vetro della cappella, si aprirono In spicchi soffici, lasciando penetrare la luce del giorno In raggi pallidi e lattiginosi, illuminando la piattaforma dell’altare; da piccole gabbie di legno, colombe bianche furono fatte volare verso lo sfogo del lucernario. Gualtiero Turnàd, sentì, In quell’istante così sacro, un frastuono assordante, un tuono improvviso e violento, che lo fece sobbalzare di spavento, facendogli stringere i denti fino a farli scricchiolare, le mani avvinghiarsi al bordo della panca che aveva di fronte, le nocche sbiancate, i polpastrelli compressi, le orecchie traumatizzate da quell’intrusione fulminea. Gli occhi sbarrati verso il volo delle colombe, Gualtiero, ammutolito, fissava lo svolgersi del rito, indifferente al suono che lo stava terrorizzando. La luce del giorno scomparve, facendo calare delle tenebre di pece nella cappella. Le colombe furono inchiodate al marmo del pavimento da spilloni scaturiti dal nulla, il sangue vermiglio chiazzava il candore delle loro ali oltraggiate. Tutto attorno a lui era paralizzato In una normalità che non aveva ragion d’essere: Al suo fianco, Ofelia sgranava un rosario, la prozia si tamponava gli occhi gonfi con un fazzoletto che sembrava odorare di sterco. Il prete incensiere proseguiva imperterrito la sua opera di aspersione, camminando In tondo come un demente nella cella di un manicomio, gli altri Esicasmici continuavano la loro preghiera silenziosa, Hobelio, dall’alto del pulpito, si stava masturbando con foga. Esterrefatto, Gualtiero, osservava il movimento ritmico e spasmodico della mano sotto la tunica, gli occhi grigi del Cardinale, sbarrati su un panorama di lussuria intima e personale, il labbro inferiore morso dai denti superiori, come un adolescente scosso dal proprio autoerotismo e la fantasia spronata nel disperato tentativo di soppiantare la realtà. Il chiasso apocalittico che ammantava la scena, crebbe d’intensità, era il concerto senza note di una fabbrica impazzita, un titanico congegno meccanico, essudante olio nero e ingranaggi taglienti che li lanciava In una sfrenata corsa produttiva, era l’ansimo di un demone industriale, che mangiava bulloni e acciaio rovente ed eruttava con il tonfo di una pressa, bestemmie ed improperi. Gualtiero aveva l’istinto di tapparsi le orecchie e urlare lo strazio dei suoi timpani percossi da martelli di fabbro, ma una volontà inaspettata, proveniente da lui stesso, si rifiutava di far staccare le dita dal legno della panca. Sottili lagrime insapori, scivolarono lentamente sulle sue guance, fino agli angoli della bocca contratta, le labbra inaridite. Hobelio, raggiunse l’orgasmo con un impeto selvaggio, la schiena inarcata, il sudore che chiazzava la tunica, bagnava il volto come se fosse sotto una pioggia sottile. La mano ferma. Hobelio eiaculò uno schizzo di sostanza densa e scura che imbrattò le pagine della Sacra Enciclopedia. Seguì uno sbuffo di fumo nero che ascese al lucernario. La salma di Zock invece tremava, come scossa da una improbabile scossa tellurica che interessasse solamente il suo giaciglio. Tremava con scosse brusche ed improvvise, con gesti spasmodici del capo, delle membra, del corpo stesso, quasi contenesse dei serpenti imbrigliati nelle sue viscere. I punti dei chirurghi funebri saltarono via come elastici esausti, i tendini riaffiorarono In bianche cordicelle sotto la pelle cerulea, i muscoli si afflosciarono e i denti si snudarono In un nuovo e più ghignante rigor mortis. Gli occhi erano biglie bianche fisse sul nulla. Dalla bocca storta, dal naso, dalle piccole orecchie, dai dotti lacrimali e da ogni orifizio della sua passata persona, prese a fuoriuscire un liquido nero, simile a inchiostro di china. Colava oscenamente con regolarità e stuprando le leggi della fisica, cadeva verso l’alto, salendo al lucernario buio. Come l’osceno liquame del morto saliva, sangue ignoto scendeva, gocciolava dalle pareti curve, sporcava le immagini dei santi e dei filosofi, si diffondeva sulle lastre del pavimento, inzuppava i tappeti dei gradini, si diffondeva sotto i piedi dei presenti, pioveva In gocce leggere e colorate sulle spalle chine, sui capi luttuosi, sui colletti immacolati, sulle camice di seta. L’Inferno stesso stava leccando il mondo di Gualtiero Turnàd; con la stessa foga famelica di una fiera, intenta ad assaporare le carni succulente della preda appena uccisa.
Gualtiero Turnàd si sentiva una muta statua di pietra, costretta ad assistere esangue all’Apocalisse. La percezione dell’evento soprannaturale lo raggelava In una contemplazione impotente e spiazzante che lo rimandava con la memoria alla notte della propria profanazione. Un eterno dannato ritorno ad una sinfonia di sentimenti e sensazioni che Il ritorno alla realtà della luce del giorno, aveva quasi relegato a una dimensione onirica, intima e segreta. Con uno sforzo immane, costrinse la testa e ruotare per guardasi indietro e cercare lo sguardo di Leuse. Lei era pochi banchi di distanza dalla sua posizione, ma appariva lontana e remota come Il resto dei partecipanti al cordoglio della famiglia Zock. Gualtiero cominciò ad avvertire Il freddo adombrarsi del senso di una solitudine così spiazzante ed angosciosa che un moto di pianto scosse timidamente la sua gola con una stretta lieve ma dolorosa. Era veramente isolato In quell’incubo così aberrante? Era veramente abbandonato anima e corpo In quel palpito maligno, profanante una dimora di Dio e Il suolo patrio dell’uomo figlio suo?
-E’ un invitato speciale, esimio Cavalier Turnàd- sussurrò una voce suadente, talmente prossima al suo orecchio sinistro da avvertire gli sbuffi tiepidi dell’alito del suo invisibile interlocutore. Gli occhi saettarono verso Il soggetto che stava richiamando la sua attenzione, con un tuffo al cuore, provocato dalla sorpresa e da un rinnovato spavento, vide Il Cardinale Hobelio, con Il suo profilo rapace e gli occhi color del ferro, un sorriso sottile e tagliente come una lametta da barba. Con noncuranza, si stava nettando le mani imbrattate dal frutto del suo osceno onanismo mentre contemplava Il dilagare dell’incubo nella cappella come un capomastro ammira Il procedere dei lavori sotto la sua direzione. –Non si preoccupi. Per tutti gli altri presenti, nulla è mutato, io sono l’austero officiante, i miei confratelli pregano In meditazione profonda, lei e tutti voi benefattori del Regno, seguite In rispettoso silenzio lo svolgersi della cerimonia. Lui..- accennò col capo all’incensiere che imperterrito e maniacale percorreva In tondo Il suo tragitto, Il ritmo dei passi accelerato -..Gira.- proferì quell’ultima parola con un tono di sollievo, come se l’equilibrio di tutta la situazione poggiasse su un pilastro creato dal suo moto cieco; l’odore dell’incenso s’intensificò nelle nari di Gualtiero, come a sottolineare la criptica importanza dell’azione In corso. Il Turnàd, scoprì che ora riusciva a muoversi con disinvoltura, si voltò verso Il Cardinale, certo, che Il confrontarsi con una figura tangibile, l’aiutasse a riacquistare un controllo e una sicurezza che fino a quel momento sentiva estremamente labili e carenti. Deglutì impercettibilmente, infilò i pollici nel panciotto di velluto, per riappropriarsi di un gesto smargiasso e nuovo coraggio, poi parlò: - Perché tanto disturbo?
-Definiamola una specie di anticamera. Un aperitivo di benvenuto. Stanotte ci risulta che ha un impegno piuttosto importante.- Gualtiero risentì con la memoria la voce del demone nelle segrete dell’Omnialudo. –E’ informato, Monsignore.- Il tono era neutro, atono, teso a lasciar trasparire un’assoluta indifferenza alla rivelazione.
-Naturalmente. Io sono Il nuovo evocatore. Succedo al buon, Caro, vecchio sodomita Brunello. Grazie al suo intuito.
-Continuo a non capire questo spettacolino.- fu sottilmente soddisfatto dell’uso del diminutivo In quel frangente. Hobelio, con un gesto parve comprendere tutta la scena che continuava a svolgersi attorno ad entrambi: Il sangue che chiazzava i fedeli, la nera essenza di Zock che ascendeva al Caos, Il frastuono che vibrava nelle ossa. –I Demoni sanno essere plateali come pochi, nell’Universo.- disse con tono da cicerone –Nei momenti appropriati, l’apparenza è un’arma fondamentale nelle loro mani. Sanno essere efficacemente teatrali, attori. Ingannatori.
-Anch’io.- replicò asciutto, Gualtiero.
-Certamente. E’ un uomo.- continuò Hobelio –Il demone che Il mio predecessore ha evocato per lei, è un’entità piuttosto potente. Le sue mire devono essere considerevoli. Un consiglio. Ha, tra le mani uno strumento assai pericoloso da gestire, si muova con tutta la prudenza possibile. Stasera, verrà a farle visita madama Leuse. Sarà una preziosa assistente. Le dia ascolto. In tutto.- Gualtiero annuì lentamente, osservò di nuovo la donna alle sue spalle e spinto da una curiosità candida e spontanea si ritrovò a chiedere: -Se non seguissi i vostri consigli?- Hobelio sorrise come di fronte alle ingenuità di un fanciullo ignaro dei fatti della vita: -Prenda tutto quel che le sta accadendo intorno. Lo peggiori per un numero infinito di volte, abbandoni anche solo l’idea del pensiero della speranza. Ecco: una briciola della dannazione cui andrebbe incontro. Una briciola infinitesimale.
-Vorrebbe spaventarmi?
-Oh no.- Hobelio scosse Il capo con divertita rassegnazione –Non sarei minimamente In grado di descriverle quel che può capitare a Chi si lascia imbrigliare. Nessun essere umano può essere capace.- rise sgradevolmente, snudando i denti In una parodia d’un sorriso:- Ovviamente Chi ha provato, non è certo ancora fra noi per poterlo raccontare.- seguì una pausa, riempita dal chiasso ultraterreno, trapanante ed inarrestabile. Gualtiero cominciava a soffrire di male ai denti, alla testa, alle orecchie. Stridii lancinanti gli facevano strizzare gli occhi, comprimere i denti In un morso cieco, insopportabile. Tonfi gravosi, battiti crudeli, percussioni allucinanti che vibravano colpi nauseabondi nell’addome, rimbombavano nei visceri del corpo. Lottava contro l’istinto di urlare, compiva sforzi immani a mantenere la sua posa di fronte al Cardinale. Questi lo fissava tagliente, come se stesse leggendo tranquillamente Il suo disagio e la sua sofferenza come un capitolo particolarmente divertente di un romanzo. –Che ne dice si ci accomiatiamo? Secondo me abbiamo goduto abbastanza della presenza del male, per oggi. No?- Il Turnàd annuì con solennità, per celare Il sollievo che le parole di Hobelio gli avevano trasfuso. Sotto le labbra contratte, si ritrovò l’anello con rubino del religioso, Quello che sigillava Il falso dito. Lo baciò senza esitazioni. Fulmineamente.
Cadde un silenzio palpabile, ovattato. Le orecchie ronzavano nei riverberi dell’incubo sonoro cui erano state sottoposte con martoriante crudeltà. Le dita rilassate, posate le une sulle altre, la bocca socchiusa nel mormorio di una preghiera di commiato. Gualtiero Turnàd, osservante fra gli osservanti, era inginocchiato sulla panca, la moglie a fianco, Il capo coperto dal nero pizzo di uno scialle da lutto. La scrutò, osservandone Il profilo delicato come Quello di una statuina di porcellana smaltata, Il pallore anemico del suo incarnato, accentuato dalla maternità, assieme ad un’inaspettata pienezza dei seni, ingabbiati nel corpino semirigido dell’abito. Un solleticante desiderio sessuale gli fece aumentare la salivazione; Il pensiero della prossima visita di Leuse, gli portò l’inizio di un’erezione lenta e graduale che gli provocò disagio. Si ritrasse da quel pensiero. Attorno a lui, i presenti tornarono a sedersi. Gualtiero si adeguò, sbirciò l’ora. La cerimonia era alla conclusione. I fedeli si alzarono In piedi con un fruscio percettibile di gonne e palandrane, le medaglie e le altre decorazioni di Leone deSpad, tintinnarono come una pioggia di monetine. Gli Esicasmici caricarono In spalla Il feretro ed In silenzio assoluto, uscirono dalla cappella, accompagnati dal suono dell’organo, dai rintocchi delle campane e dai passi timorosi dell’assassino e dei suoi numerosi complici.

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