domenica 11 settembre 2011

Capitolo Quarto

Al completarsi del primo mezzodì, con Il corpo terreno del defunto Viro Brunello Zock, nuovamente riposto nella candida Stanza dell’Attesa, seguì un lauto pranzo di commiato, al quale, Il Turnàd, partecipò senza appetito. Malgrado Il grigiore di quel giorno luttuoso fosse notevolmente impallidito, nella sala gravava un’atmosfera plumbea, che la padrona di casa si era premurata di porle accento, avendo fatto disporre sulla tavola imbandita, una fila di grossi candelabri di peltro, dalle sommità dei quali, ardevano le fiamme tremule di nere candele funebri. Nella Santa Chiesa Cattolica Draconiana, Il culto dei morti era un rito pervaso da una profonda austerità, ammantato da una sacralità pesante ed enfatica, sicuramente necessaria a coprire le radici pagane che possedeva. In fondo, Il culto dei morti, era come un cugino pazzo che la famiglia si premurava di far passare per simpatico eccentrico.
Nella rigorosa disposizione dei posti a sedere, Madama Magdalena Zock, aveva fatto sedere alla sua destra Ofelia e Gualtiero, alla sinistra, i nipoti, con rispettive famiglie, per ordine di anzianità e poi, a seguire, tutti gli ospiti. Tecnicamente, un occhio esperto alle genealogie, avrebbe dovuto intuire i vincoli di parentela solamente dalla disposizione degli invitati, ma Gualtiero non aveva la mente propensa a giochetti viziosi, In quel frangente. Poté soltanto notare che Leuse era piuttosto lontana, seduta eretta, Il lungo collo snello, leggermente inclinato verso la sua pietanza, Il profilo del volto cesellato che risaltava nel bianco alabastrino della carnagione. Inspirò profondamente dal naso, consapevole dell’attrazione morbosa che lo attanagliava ogni volta che poteva godere della sua vista. Un paio di posti più In la’, invece, distingueva l’uniforme da Dragone di Leone deSpad e la fulva chioma della sua consorte, cugina di Leuse. Attorno a Gualtiero, Il brusio costante di una lenta conversazione, parole a volte sussurrate, altre, mormorate sotto Il tintinnare delle posate e delle stoviglie. Udiva Ofelia, costantemente premurosa con la prozia In lutto. Trovava francamente stucchevoli le parole di sua moglie, difficilmente sopportabili per lui, dato che In esse intuiva le avanguardie degli aspetti che meno apprezzava nella donna che aveva sposato e In causa dei quali, la sua vocazione al tradimento era diventata col tempo così esuberante. A un tratto, In quella sua silente e intima considerazione, percepì Il bagliore di un sollievo, portato da una nuova e, sicuramente, appagante giustificazione al vortice d’empietà In cui si era da poco gettato: Gualtiero Turnàd aveva sempre tradito e ingannato ma questa volta, da quel tradimento così assoluto e madornale, aveva la certezza di derivarne un guadagno più forte di qualunque altro affare il padre e suo nonno non avevano mai concluso prima. Loro, prima di lui, avevano sfruttato e ingannato uomini e donne di tutti i ceti, avevano accettato d’essere zerbini nei momenti delicati e tiranni quando le esigenze lo richiedevano, ma mai avevano osato sfruttare l’insfruttabile, azzardare una speculazione così ardita come quella di usare l’occulto con la stessa spietata e vorace brama di guadagno e di potere. Gualtiero sì. Era conscio, certo, dei rischi che stava correndo e dalla notte dell’assassinio, aveva sfiorato lievemente la potenza che era andato a stuzzicare ma sentiva di avere alleati forti motivati e soprattutto, dotati d’esperienza.
Sopportò con celata mestizia Il pranzo, le prudenti e misurate parole che infarcivano il passaggio tra una portata e l’altra e infine, agognato, Il commiato con i suoi saluti lunghi ed estenuanti. Il prossimo appuntamento, era atteso fra tre giorni, alla tumulazione del defunto nella camera funebre. Ofelia sembrava restia a lasciare la parente nella sua disperata solitudine, si attardava stringendole la mano velata dalle trine di diafani guanti, mentre gli altri invitati defluivano verso le autovetture parcheggiate sullo spiazzo adiacente la magione. Gualtiero stava ritto, Nell’attesa sull’uscio, i pollici infilati nei taschini del panciotto di broccato. Una rabbia sorda e monocorde ringhiava dentro di lui, gli faceva serrare le forti mascelle con una pressione animale, le folte basette fremevano impercettibilmente, come le vibrisse di una fiera In caccia; a stento, riusciva a contenere l’istinto di strappare la prolissa consorte dalla sua trita opera consolatoria. Non era un imperdonabile spreco di tempo, quei momenti persi dietro le gonnelle di una stupida, ingenua vecchia gemebonda? Gualtiero indugiava, sul portone intarsiato. Alle sue spalle, Il flemmatico autista del defunto, si. fece avanti, sussurrandogli una breve frase all’orecchio: Il Turnàd gli rivolse la sua attenzione, le sopracciglia inarcate nell’espressione di un rinnovato interesse. Gualtiero prelevò un taccuino dalla tasca interna della sua palandrana e si segnò Il nome. disse avanzando verso le due donne. Il suggerimento di Amòdas fu accolto da Ofelia con un sorriso riconoscente e uno sguardo palpitante: lui scosse la testa con fermezza: la citazione dalla Sacra Enciclopedia fu l’apoteosi del suo congedo. Sotto. Amòdas, attendeva tenendo la portiera aperta.
Sulla strada del ritorno, l’autista domandò chiarimenti sulla destinazione: Verso le quattro del pomeriggio, la berlina procedeva lungo il viale principale di Cadmia. Non era una bella città, molto diversa dalla sontuosa capitale. Cadmia era nata come città mineraria e dai suoi palazzi bigi, dalle facciate anonime, dalle torreggianti ciminiere annerite dal fumo perenne che dalle loro bocche instancabili eruttavano, traspariva l’anima scabra ed essenziale che il centro urbano aveva acquisito nei suoi pochi secoli di vita. Aveva un solo cuore verde, Cadmia, un grosso parco malinconico sul quale spesso e volentieri stagnava l’umidità di un grosso lago dalle acque torbide, popolato da lunghi pesci color del piombo che occasionalmente affioravano per inghiottire piccole rane verdastre o palline di mollica gettate da bambinetti o mutilati claudicanti. Sui magri rami caliginosi d’alberi muti, si poggiavano grossi corvi guardinghi, magari dopo aver defecato In volo sulle spalle di qualche statua di granito, intitolata ad un generale oppure a qualche facoltoso capitano d’industria. A contorno di Quello scorcio di natura rassegnata, una cintura d’edifici sul cui granito il tempo e le industrie avevano disegnato schizzi di fuliggine, ostentati come decorazioni od onorificenze. Il Palazzo del Sindaco era il più alto ed aveva una torre aguzza con orologio dal quadrante che di notte s’illuminava di un chiarore pallido come Quello di una luna, Il tribunale aveva una lunga scalinata alla fine della quale, ci si trovava al cospetto dell’Angelo con la Bilancia, il cui sguardo di bronzo sembrava destinato a scrutare i meandri delle anime colpevoli che varcavano quella soglia. Ai suoi lati, due agenti della Polizia Reale, In alta uniforme, montavano di picchetto con i fucili lucidati e gli occhi fissi. Il Palazzo della Borsa era il più anonimo, nelle intenzioni dell’architetto che lo aveva realizzato settant’anni prima, c’era l’esaltazione di una sobrietà che doveva rilevare il valore di quel che accadeva all’interno, a scapito di un’inutile ostentazione esterna: possedeva ampie vetrate istoriate e un lungo porticato sottostante. A chiudere il quadrunvirato metropolitano, c’era l’antica sede della corporazione dei Fabbri, acquistata a suo tempo dal padre di Gualtiero e trasformata In Amministrazione Generale dell’Impero Turnàd. La Casa si sviluppava su quattro piani ed era adornata da due torri circolari, merlettate e coperte da tettoie a cono In mattoni rossi, sulle rispettive guglie, sventolavano due bandiere recanti il marchio dei Turnàd. Davanti alla sede, Amòdas parcheggiò e scese per aprire la portiera a Gualtiero. Il Turnàd gli voltò le spalle e varcò la soglia.
Con passi imperiosi, Gualtiero attraversò il vasto androne, lasciandosi alle spalle un solco ideale di capi chinati In ossequiosi e sottomessi saluti.
Io sono il vento. Pensava mentre disegnava il suo sentiero di riverenze ad ogni corridoio. Le orecchie captavano il rimbombo dei suoi passi, il ticchettare di centinaia di macchine per scrivere, ordinatamente posate su altrettante, piccole scrivanie, sulle quali impiegati e segretarie abbassavano lo sguardo e muovevano dita nervose. Nell’aria c’era odore d’inchiostro e carta. Il Turnàd inspirava forte dalle narici il sentore dell’attività, il motore del suo guadagno ed era sicuro d’avvertire un’energia dietro quella teoria di sensi e di azioni, l’energia sotterranea e possente dell’Impresa. Sapeva senza vedere, senza leggere lui sapeva che il riversarsi dell’inchiostro sulle carte dattiloscritte, sanciva movimenti di uomini e mezzi attraverso tutto il continente e trasportava cifre di denaro quali nessun dipendente non avrebbe mai posseduto In tutta la sua mesta esistenza.
Gualtiero Turnàd assaporava quella sua personale e quasi onanistica onnipotenza tutti i giorni della sua vita, da quando le redini delle attività erano passate nelle sue mani eppure, quel giorno, la sensazione era mutata. Gli appariva più fioca, debole, a tratti perfino modesta a dispetto della sua egemonia fuori e dentro i confini del Regno. Ciò che pregustava per il futuro, era destinato a rendere l’Impresa, soltanto una rotella impegnata a svolgere il suo bravo, automatico lavoro nell’interesse di un più complesso macchinario.
Il suo ufficio, occupava il penultimo piano del palazzo. Un finestrone circolare, dominava la parete alle spalle della sua poltrona e regalava una panoramica di Cadmia con, stagliate sull’orizzonte bigio, le torreggianti ciminiere delle officine meccaniche e della vicina acciaieria. Fumo nero e denso, chiazzava quel cielo tardo autunnale, velandolo di un’oscurità precoce che ammantava la città di una malinconia decadente. Quello stesso ufficio aveva conosciuto tanto l’amore fugace e pruriginoso che Gualtiero talvolta, un po’ distrattamente, si concedeva di consumare con qualche segretaria intimorita, quanto la morte improvvisa e sorprendente del nonno Yan. Ai suoi occhi era sempre apparso una sorta di mito lontano, ammantato da un’aura di rispetto reverenziale verso colui che aveva definitivamente proiettato i Turnàd nelle sfere superiori della società aviana. Figura mai conosciuta ma costantemente evocata da miriadi di racconti ed aneddoti da parte del padre, che non perdeva mai occasione di citarlo. In età più adulta, Gualtiero si era fatto idea che il perenne ricordo del nonno, fosse un’obbligo morale o, ancor più segretamente, un singolare tentativo di evocazione di un morto, sradicato dal mondo dei vivi, senza aver vissuto la soddisfazione tutta animale e maschile dell’assistere al proseguimento del proprio sangue. A volte, si era anche fatto l’idea inquieta e poco rassicurante, che l’anima del defunto parente si agitasse all’insaputa della realtà ordinaria, costantemente In bilico tra i due mondi, nel disperato tentativo di rubare qualche istante della vita al nipote, che stava portando il testimone delle sue fatiche e dell’ingegno.
Il richiamo di un ricordo che non gli apparteneva, era, per Gualtiero, un’intensa opera di ricostruzione, dove In sostituzione della memoria, agiva la fantasia. Allora, gli eventi, gli episodi, gli aneddoti diventavano materia duttile ma intangibile, che si poteva forgiare ad esclusivo uso e consumo del proprio creatore e utilizzatore. Era gioco, gingillo col quale il gran capitano d’industria amava occasionalmente sollazzarsi, come la canonica ora d’aria che si concedeva ai carcerati, per alleggerire il grande carico di responsabilità che quotidianamente doveva sobbarcarsi, all’oneroso piedistallo del suo dominio. Chiuso nella fortezza della sua mente, Gualtiero, lasciava che il simulacro del predecessore si formasse gradatamente, scegliendo con cura i racconti che gli sovvenivano, come impegnato nell’assemblaggio di un modellino, alla ricerca dei pezzi più adatti.
Yan Turnàd era stato un continuo riferimento nella sua fanciullezza, un modello da seguire, onorare e riverire In ogni occasione perché sue eran state le mani che avevano iniziato la fortuna della famiglia. Così il nonno aveva mani grosse e sgraziate, mani ancora da operaio, che In gioventù avevano conosciuto la cura deformante delle fonderie, la scuola sporca e sudata dell’arte dei fabbri-ferrai. Il corpo era conformato In conseguenza: tozzo, massiccio, testimone di un non ancora sopito vigore. Da lontano, mal gli si addicevano le costose palandrane che sfoggiava In società, i folti e cespugliosi favoriti che gli incorniciavano il volto. Tra i ricchi borghesi, che sorseggiavano con noncuranza aromatici spumanti fra gli stucchi dorati del Bar della Borsa, Yan Turnàd non appariva altro che quel che proveniva dal suo stesso passato: un artigiano arricchito da una violenta voglia di diventare. Soltanto il continuo montare dei suoi titoli In borsa gli permetteva di esser persona gradita alla loro presenza. Gualtiero aveva serie difficoltà a figurarsi un simile stato d’animo. Due generazioni di potere In salita, cancellavano piuttosto rapidamente certe spigolosità di classe. Pensava che quel sordo e sotterraneo moto nell’animo del parente, si potesse imitare, immaginando una forma di frustrazione costante ma spesso sotterrata davanti all’esigenza di intrattenere rapporti di reciproca opportunità. Il padre di Gualtiero rammentava spesso di come Yan Turnàd si adoperasse caparbiamente ad elevare socialmente la sua progenie. Aveva la consapevolezza che quel salto qualitativo, era possibile solamente alla generazione successiva la sua. Dentro di se’ sapeva che il suo essere aveva radici troppo profonde per essere estirpate. Sapeva di essere un rozzo provinciale che lottava contro il suo stato. L’abitudine di urlare dietro agli operai, come l’ultimo dei capi reparto, non si addiceva al freddo distacco che un capitano d’industria doveva avere nei confronti di Chi, sotto di lui, poteva vivere. Yan sentiva di non aver concluso la sua giornata se non eseguiva un giro d’ispezione lungo le linee, a respirare paura e timore reverenziale, fatica, sudore e stanchezza.
Gualtiero, sapeva che poteva comprendere fino In fondo quelle dimostrazioni d’autorità. L’umanità era una lunga serie di greggi, ogni gregge necessitava di una guida, altrimenti si sarebbe disperso. Il defunto vizioso Viro Brunello amava rammentarglielo quando, nelle sue visite pomeridiane, si premurava di istruirlo alle profonde e sacrosante interpretazioni che, l’Illuminata Sacra Enciclopedia celava tra le sue righe; grondanti verità sempiterne e tesori di saggezza senza tempo. Talvolta, forse come marchio di famiglia o palpito segreto lasciato In eredità dal padre del padre, anche lui sentiva il bisogno intimo di respirare la propria autorità, di avvertire i fremiti timorosi degli operai che, a capo chino e sguardo sfuggente, spiavano i suoi passi per i capannoni arroventati. Per contro, avvertiva una decisa distanza nell’abitudine che aveva, il vecchio Yan d’ostentare la propria ricchezza; nonostante la fama, le amicizie altolocate, le frequentazioni esclusive, l’anima scarsamente raffinata dell’artigiano divenuto Potente, affiorava In picchi improvvisi di volgarità inconsapevole. Il suo feticcio principale era un oggetto d’uso comune e frequente: Il portafoglio. Fra le sue mani, esso diventava una bandiera, un simbolo, un documento di riconoscimento; era uno scudo levato a proteggerlo dalla fastidiosa inoffensività dei gregari e dei sottoposti. L’enfasi dei suoi movimenti quando lo estraeva dalla tasca dei calzoni, gli era stata più volte raccontata con la stessa ricchezza di linguaggio e dovizia di particolari che un cronista avrebbe, diversamente utilizzato, per descrivere un numero di danza. Gualtiero si figurava quel momento, per il nonno, ammantato da trionfante e segreta soddisfazione, sottile autocompiacimento e una vena di sadismo, che nei Turnàd aveva sempre pulsato, da una generazione all’altra con alterna vivacità. Inclinava il corpo, lasciando gravare il peso su una gamba; faceva girare indietro il tozzo braccio, descrivendo un arco a suo modo elegante verso la tasca gonfia, In corrispondenza della natica. Estraeva la busta di cuoio diligentemente conciata. Indugiava, sulle note invisibili e inaudibili di un valzer tutto personale, tenendo il tronfio portafoglio tra le mani, come un uccellino caduto dal nido. Apriva il suo tesoro tascabile e scartabellava lentamente lo spesso mazzo di banconote. Con occhi vivaci e guizzanti, piccoli e luccicanti dardeggiava lo spazio che lo circondava, alla ricerca di sguardi invidiosi, moti di stizza, teste curiose, persone incapaci di mostrare indifferenza davanti alla teatrale attenzione nel saldare conti portentosi. Doveva essere il perpetrarsi di un rito, l’immolazione di una povertà che Yan Turnàd aveva sconfitto ed umiliato sull’altare del guadagno. Ogni volta che poteva sventolare la sua personale bandiera, Yan Turnàd affermava se stesso davanti all’universo, lui esisteva nel momento In cui pagava: poteva pagare, poteva esistere.
La medesima tracotanza emergeva quando, sempre spinto dalle correnti delle memorie passate, amava, un sabato ognitanto, accompagnare la sua consorte a far compere lungo i viali dorati della capitale. La nonna era una Metaberga, gocce di sangue blu impreziosivano le sue origini ed avvicinavano i Turnàd alla chimera di un titolo nobiliare. I Metaberga erano anche gelidamente razionali e il paventato scandalo che si poteva prospettare all’orizzonte, nel momento In cui era presa In considerazione l’unione In sacro matrimonio con un provinciale arricchito, era stato dissipato dalle possibilità di crescita economica che entrambe le famiglie avevano teorizzato, conti alla mano. La nonna di Gualtiero, tra l’altro, non aveva fama d’essere persona troppo inquadrata nelle convenzioni dell’epoca e la sua spiccata personalità, unita ad un’intelligenza lucida ed a tratti inquietante, non l’aveva resa un partito attraente. Non si era mai capito se Lara Metaberga fosse innamorata di Yan, i domestici non ricordavano liti alla loro presenza e quando necessitava, i coniugi, presenziavano l’uno saldamente agganciato al braccio dell’altra.
In una vecchia foto ingiallita; incorniciata e appesa ad una parete nel salone piccolo della reggia Turnàd, Lara appariva come una donna piuttosto bella, magra, lo sguardo reso ancor più sornione dalle palpebre un po’ pesanti che facevano sembrare gli occhi impigriti da un sonno interrotto. I capelli, castani, attorcigliati In pesanti boccoli formati da ferri caldi. Al suo fianco, nonno Yan. Le basette sempre più folte, i capelli brizzolati e scarmigliati, l’espressione ferma ed austera mentre posava davanti al fotografo. Gli occhi avevano la tipica luce spiritata che il lampo di magnesio sovente regalava. C’erano state sere che Gualtiero aveva studiato quella foto per ore intere, sorseggiando il suo cognac con il crepitare del fuoco nelle orecchie; scrutava le due figure alla ricerca bramosa di qualunque, piccolo, sotterraneo indizio che lo aiutasse a determinare il tipo di sentimento che aveva legato i due parenti e per quanto si fosse sforzato nello scovare un’ombra d’amore nei loro occhi oppure una curva di disprezzo nel taglio delle loro bocche, nulla sembrava intenzionato ad affiorare dalla carta impressionata. Davanti, non aveva le immagini di una coppia, bensì di due corpi che, dall’imponderabilità dei loro sarcofagi di carne e sangue ed ossa, proteggevano dall’analisi del futuro entrambi.
Era, in ogni modo, assolutamente sicuro delle loro profonde differenze. Tanto era sanguigno e talvolta villano, il nonno; tanto era silente, flemmatica e riflessiva la nonna. Gualtiero si domandava, appunto, come poteva sentirsi Lara, quando, con Yan si recava a Gorreal. Al momento dell'acquisto, Yan sfoderava la sua natura più diffidente e pretenziosa, era un’autentica maledizione per commessi e negozianti. Criticava continuamente qualunque prodotto gli fosse proposto, giudicava tutto con sufficienza ed ossessionava chiunque avesse a che fare con lui, nel momento della contrattazione, sulla ricerca della miglior qualità disponibile. Sia si trattasse di una veste da sera per la moglie che di prelibati formaggi nella miglior gastronomia della città, la spesa si protraeva per ore, sovente, costellata da litigi e battibecchi coi titolari, fino al gesto finale, all’enfatico sfoderare del portafoglio ed il conseguente garrire di banconote. Simile ad un apice orgasmico, una volta che, dentro di sé, Yan aveva placato il modesto fabbro-ferraio che ancora lavorava In lui, la sua persona si ridimensionava, il respiro era meno pesante ed ansimante, i gesti più composti. Attento e premuroso, controllava che l’autista caricasse borse e pacchetti nel bagagliaio della berlina e dopo, porgendo cavallerescamente il braccio alla sua signora, l’invitava a proseguire la passeggiata, cadenzando i passi con i colpi del bastone sul selciato.
Il tempo, sovente finiva annullato dalla capacità delle rimembranze, di calare l’individuo nel bel mezzo di una nube ovattata, dove le immagini si accavallavano alle sensazioni e le sensazioni ai sentimenti. In quel fenomeno, Gualtiero si accomunava ai più; così, anche per lui, il vagare con la memoria asportava le ore con precisione chirurgica, assolutamente indolore, rendendolo ignaro. L’imbrunire che sfumava lieve, In un tramonto velato dai fumi caliginosi delle ciminiere, lo colse sorpreso ed un po’ indispettito dalla perdita di preziosa realtà redditizia. I suoi occhi con un guizzo da rettile, si fissarono sull’orologio di bronzo che poggiava pesantemente sullo scrittoio, segnava le 18:45. Nessuno l’aveva disturbato, sapeva bene che prima di giungere alla sua persona esisteva un filtro, un’autentica barriera di delegati, funzionari e segretarie. Ormai, l’Impero Turnàd era un colosso che funzionava autonomamente, era un gigantesco organismo che produceva, vendeva e guadagnava seguendo la corrente dei bisogni e delle avidità delle nazioni. Era un tipo d’eternità, della quale lui ne rappresentava il capo. Gualtiero si alzò, uscì dall’ufficio e chiamò una premurosa segretaria abbigliata di grigiol’appellò senza altri preamboli aggiunse.
Alle 20.00, quando il buio aveva definitivamente conquistato la visuale dalle finestre dello studio, Leuse si fece annunciare. Gualtiero represse un impercettibile trasalimento, istintivamente, si toccò il finto dito. Occasionalmente, il moncherino pulsava di un dolore basso ma ostinato. La donna entrò nel suo ufficio. Indossava un mantello con cappuccio di raso nero, dal quale il pallore del suo volto spiccava, rifulgendo di una luminosità algida ed ultraterrena; le labbra accese da un rossetto color rubino intenso. Gualtiero avvertì un desiderio vorace, bruciante dentro di sé. Si alzò in piedi e le andò incontro; lei gli porse una mano guantata da baciare.
confessò il Turnàd, le girò alle spalle per aiutarla a togliersi il mantello, Leuse rifiutò: lui si fermò con le mani a mezz’aria.
proseguì con un disinvolto tono discorsivo. Gualtiero tornò ad occupare posto dietro la sua scrivania pensando che, seduto, avrebbe potuto dominarsi più facilmente. Con gli occhi si sforzava di indovinare le forme di Leuse, la sua nudità, ma il mantello era drappeggiato in modo impeccabile e non lasciava trasparire assolutamente nulla se non il volto. lei rifiutò con un leggero sorriso.
disse asciutta.
s’informò Gualtiero; era morbosamente curioso di tutto quel che l’attendeva, l’animo attraversato da un’ansia adolescenziale che s’imponeva di tenere a freno, sfruttando tutto il sangue freddo che riusciva a recuperare. Si trovava nell’anticamera della paura, scacciata dal potente magnetismo erotico di Leuse e dal vittorioso, inebriante sentore del potere al quale s’apprestava.
Gualtiero aveva ancora nelle orecchie l’eco remoto ma squassante del frastuono infernale, delle visioni allucinanti che avevano accompagnato il discorso del monsignore. < Rammento.
< Lo credo bene.> commentò lei. Gualtiero la fissò un momento, con insistenza: dunque Leuse aveva visto tutto quel che era accaduto durante la funzione funebre. Il Turnàd s’accomodò sullo scranno, idealmente trincerato dietro la scrivania, si accese un sigaro per tenere le mani impegnate e calmare l’ansia, che lenta lo stava prendendo. La prospettiva che Leuse potesse accedere con disinvoltura al mondo parallelo che si era manifestato durante la funzione, riusciva a lasciarlo stupito e non privo d’una timida riverenza nei confronti della donna. Ammirò il volto di Leuse. La sua bellezza era ipnotica e stupefacente, i tratti possedevano una regolarità ed una simmetria degne del cesello di un orafo.< Cosa mi devo attendere stanotte?> domandò Gualtiero con voce ferma, in sé, sperava che non trasparisse troppo la sua curiosità. La donna accennò un sorriso indecifrabile, si mosse nello studio come un’ombra e si affacciò alla finestra, Turnàd la seguì, ruotando sullo scranno. Lei osservava il profilo dei tetti inclinati degli stabilimenti in piena attività. Una notte spessa e densa anneriva il cielo sopra Cadmia, ne stelle ne Luna illuminavano il panorama, luci artificiali imperavano come rabbiosa affermazione dell’uomo sulla natura. Dai lucernai incastonati nelle volte dei capannoni, ardeva una luminosità rossastra che incendiava il quartiere industriale. File di lampioni segnavano le strade asfaltate e lo scalo ferroviario. Leuse seguì i passi di due uomini che spingevano un pesante carrello, dopo chiuse le tende e si volse a Gualtiero. Con voce ferma e gelida annunciò: Turnàd deglutì, ripensando all’assassinio di Zock. Più volte si era chiesto se ne fosse stato ancora capace. Quando la lama aveva aperto le carni del parente religioso, lui non era realmente consapevole del gesto. Corpo e anima si erano scissi, il braccio assassino era giusto uno strumento di carne, sangue, nervi ed ossa mentre la sua ragione viveva la sequenza delle sue azioni con il medesimo distacco di un osservatore esterno. domandò con falsa neutralità nella voce.< Una vittima designata. Un sacrificio per il demone che ti servirà.
sbottò Gualtiero Leuse si piazzò davanti a lui, altera, gli occhi che gli dardeggiavano il volto in un’indagine sprezzante: il Turnàd si mosse a disagio, una vampa di calore gli imporporò le guance. Improvvisamente, Leuse gli appariva lontana ed inespugnabile tanto che cominciò a pensare che tutto quel che era accaduto fra loro, fosse infine frutto di lubriche fantasie. chiese ancora Gualtiero. si rispose da solo.
Leuse sorrise di nuovo, sardonica. Camminava con lenta solennità e silenzio. Portava stivali di pelle nera con tacchi molto alti e sottili eppure quasi non la udiva. Turnàd scosse il capo come ipnotizzato dalle impalpabili movenze del mantello della donna. Leuse avanzò verso la porta, disse:< Andiamo.> Gualtiero si alzò automaticamente e la seguì.

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