domenica 25 settembre 2011

Capitolo Quinto


Il respiro dell’Industria alitava fumi roventi dalle ciminiere, un vento già freddo spazzava la città fuligginosa e trasportava l’alito di un’attività, forgiata dalle fatiche e dal bisogno di uomini e donne, stretti nella morsa di una miseria, che divorava avidamente sentimenti, gioventù ed energie. Gli Stabilimenti Turnàd, anche nel profondo della notte, proseguivano la loro opera di produzione. La planimetria si divideva in due aree distinte dall’intensità dell’illuminazione: la Fabbrica Vecchia e la Fabbrica Nuova. La Fabbrica Nuova baluginava di luci elettriche che scintillavano tra i vapori degli altiforni. File di capannoni si susseguivano con regolarità schematica, disegnando uno scheletro di cemento ed acciaio che fremeva sulla pianura adiacente la periferia settentrionale. La Fabbrica Vecchia invece giaceva rannicchiata all’ombra del progresso che aveva ella stessa avviato. L’edificio di mattoni anneriti era stato costruito agli esordi della fortuna dei Turnàd, a ridosso di una bassa e nuda collina che con gli anni era cresciuta in altezza per l’accumulo di scorie. Ora che la vecchia struttura era passata in secondo piano nei progetti produttivi della Famiglia, gli impianti venivano mantenuti in funzione esclusivamente per la produzione di pezzi di ricambio. Un solo altoforno funzionava e vi lavoravano gli operai più giovani, come in una sorta di palestra dove allenare il lavoro per le produzioni più impegnative. Tra le sue mura si consumava quotidianamente la dura formazione degli apprendisti, si ribadivano le inderogabili regole della fabbrica, si versavano lagrime e fatica. Intere famiglie spendevano la loro esistenza sulle catene di montaggio e tra le colate di metallo fuso. Di giorno i minorenni integravano i magri salari avvitando bulloni, la notte conosceva la resistenza dei ragazzi e delle ragazze in età da marito. La Produzione si comportava come la vita dei poveri che sosteneva: consumava.
All’approssimarsi della mezzanotte, una berlina parcheggiò davanti all’ingresso della Fabbrica vecchia. Amòdas, il neoassunto autista di Gualtiero Turnàd scese ad aprire al padrone e con altrettanta discrezione ripartì, lasciando i due passeggeri al cospetto dell’impianto. Turnàd porse galantemente il braccio alla dama e fece strada, come se invitasse Leuse ad entrare in un locale elegante.
Entrarono da un accesso secondario, attraverso un portone metallico, passando nel reparto formatura. Nell’aria c’era un odore pesante di terra bruciata. Nel grande magazzino c’erano mucchi di terra scura, distribuiti in cumuli regolari per tutto il locale. Alcuni operai forniti di pale e carriole si avvicendavano attorno ad un grosso macchinario per il setaccio. Leuse si fermò un momento stringendosi addosso il mantello, osservando il lavoro in corso. Gli uomini parlavano poco, gettavano palate di terra nella tramoggia che vibrava violentemente. Un capo dallo sguardo severo osservava la miscelazione della terra nuova con quella di riciclo poi si staccava dal gruppetto e raggiungeva il personale che passava la terra di riciclo nelle molazze. Sbraitava loro parole incomprensibili, fagocitate dal frastuono dei macchinari, fino a spintonare un ragazzo che non gli appariva abbastanza solerte nelle sue mansioni. Gualtiero appoggiò una mano a dita aperte sui lombi di Leuse, spingendola delicatamente verso l’uscita del reparto. Al loro passaggio, gli operai s’interruppero il tempo necessario a togliersi il cappello e porgere un saluto al padrone con un ossequioso cenno del capo. Un sorriso duro, celatamente orgoglioso allargò il volto del Turnàd, lieto che Leuse avesse visto la sua autorità.< Ti temono.> osservò. < Mangiano grazie a me.> rispose lui, telegrafico. La donna non aggiunse altro. Gualtiero si muoveva con ritrovata dimestichezza passando dalla formatura alla fusione.
Il cuore dello stabilimento possedeva le dimensioni di una cattedrale. Una volta complessa di travi e pilastri copriva tre possenti convertitori. Gli apparecchi a forma di pera, alti sei metri svettavano, roventi al fondo del capannone. Emanavano un calore feroce, che aggredì le guance setose di Leuse e sembrava far aderire il mantello al corpo come una mano invisibile. Le colate di metallo fuso che venivano spillate da un operatore, gettavano manciate di scintille incandescenti che rimbalzavano sul pavimento, lastricato di materiali refrattari. Una luminosità rosseggiante dominava ovunque e le ombre ballavano guizzanti in ogni cantone. Turnàd fece cenno a Leuse di raggiungerlo. Il rombo dei forni cercava di sovrastare la voce dell’industriale e le parole di Gualtiero uscivano a forza di urla roboanti:< Qua arriva la ghisa.> spiegava con lo sguardo sbarrato sulla produzione in corso.< In questa fase la percentuale di carbonio, in essa, è troppo alta. Così la lega risulta troppo dura e fragile, praticamente inservibile. Tocca ai convertitori. Si cola la ghisa dentro, sul fondo del convertitore si trova una camera dove viene pompata aria.> Leuse sentiva rivoli di sudore scorrerle per tutto il corpo, come una corsa di formiche lascive. La combinazione di calore e frastuono aveva un effetto stordente e senza accorgersene, si era appoggiata alla spalla di Turnàd, con l’alito delle sue parole entusiaste che colpiva le sue orecchie.< Allora?> la domanda, dal tono impertinente, era una piccola provocazione per alimentare l’esaltazione di Gualtiero. Lui le strinse la vita e con lunghi passi energici la fece girare attorno ai convertitori, proseguendo la sua spiegazione:< Con l’aria s’immette ossigeno, che reagisce assieme al carbonio.> a sottolineare le sue parole, dalle bocche dei convertitori, fuoriuscirono delle fiammate abbaglianti. Il reparto, fotografato dalla vampa, sembrò raggelarsi in un flash gigantesco. Alcuni uomini, addetti alle colate, apparvero come figure immobili, statuine cotte dalla furia di un vulcano. Quel mondo fatto di fiamme, fumi e metalli roventi che sprizzavano ovunque, appariva come un negativo del fresco mondo reale. Gli operai passavano ore ed ore sotto quella cappa, sudavano, respiravano l’aria acre attraverso maschere che negavano il volto e quindi la loro identità. Leuse, assistendo all’attività frenetica, meccanica e rischiosa dei lavoratori, cominciò a comprendere la scelta di quel luogo. Un’intuizione sonnolenta, emersa lentamente tra una colata di metallo fuso e il cigolio di una siviera colma. La vecchia fabbrica era un luogo di trasformazione, di rinascita degli elementi in altri elementi. I crogiuoli ribollenti ricordavano l’agitarsi della vita in un grembo apocalittico. Il metallo fuso era la parodia di fresche acque portatrici di vita, la sofferenza, la rabbia sorda, l’assenza di letizia e felicità, l’antitesi dei desideri. Il succo dello sfruttamento dell’uomo sul suo prossimo. Le condizioni estreme degli operai diventavano mute preghiere di un riscatto che non sarebbe mai giunto. Dove l’ossigeno si bruciava, anche le speranze sembravano destinate ad analoga sorte. Sorrise, Leuse, mentre Gualtiero l’accompagnava oltre, puntando verso una scala metallica. < Andiamo all’appuntamento?> chiese lei. < Un momento.>
La scala si collegava ad un ballatoio che sovrastava l’ambiente; al fondo c’era un gabbiotto nel quale si trovava l’ufficio del responsabile di produzione. Turnàd aprì la porta ed entrò senza dir nulla. Il responsabile di turno si alzò di scatto dalla sedia, quasi rovesciandola e balbettando un saluto. Era un giovane uomo sui trent’anni, pallido e magro con un camice blu che gli pendeva addosso. Gualtiero gli domandò l’elenco degli operai di turno, l’altro glielo porse subito e ritornò in un cantuccio, fissandosi la punta delle pesanti scarpe da lavoro. Perentorio, il padrone gli chiese qual’era l’apprendista più giovane in servizio quella sera. < Gillo. Gillo Dalan. Perché?> Turnàd non rispose. Estrasse l’orologio dal taschino e disse:< Verso mezzanotte ho bisogno di lui. Me lo mandi al locale caldaie, nel seminterrato.> il capo turno non ritenne opportuno aggiungere altro e mise a posto l’elenco che Gualtiero gli aveva gettato sulla scrivania.
Turnàd scese rumorosamente le scale metalliche, prese Leuse per un gomito e l’accompagnò con un passo improvvisamente affrettato verso il fondo del capannone. Lei taceva seguendolo come un’ombra avvenente. La coppia una volta allontanatasi dalle linee di forgiatura del complesso scese lungo una rampa che digradava sotto il livello del suolo. La luminescenza incandescente dello stabilimento fu sostituita da una penombra fredda, rischiarata dalla luce cruda di piccole lampadine che costeggiavano i muri del seminterrato fino ad un pesante portone metallico, torchiato da grossi bulloni rotondi ed arrugginiti. annunciò Gualtiero con voce apparentemente ferma. Lei annuì stringendosi nel mantello.< Siamo puntuali?> Gualtiero consultò l’orologio e lo intascò con un movimento fluido:< la mezzanotte scoccherà tra dieci minuti.> annunciò. Leuse sospirò, fissò il Turnàd negli occhi e parlò con tono severo:< Ascoltami bene, ora. Una volta dentro non ho un’idea precisa di quel che accadrà. Per ora preoccupati di essere puntuale, non parlare. Porti simboli religiosi?> lui scosse il capo, affascinato per l’ennesima volta dalla bellezza levigata della donna. Guardò una seconda volta l’orologio, maledicendo la lentezza estenuante di una manciata di minuti, volatile barriera che lo separava da un grande mistero.< Sei minuti.> scandì nervoso. Leuse sorrise enigmatica e gli disse. dopo, senza dire altro s’avvicinò al capitano d’industria e lentamente, con una mano emersa dalle pieghe del mantello, gli accarezzò la patta dei pantaloni. Gualtiero sussultò sorpreso dalla mossa improvvisamente ardita e dalle profondità delle sue inquietudini, emerse un fiotto di desiderio che aiutò una lenta ma progressiva erezione. Sospirò profondamente mentre il tocco di Leuse proseguiva, seguendo la forma del pene attraverso il tessuto. Il Turnàd si mosse in avanti ma la donna lo fermò.< No. Tieniti così per dopo> il suo sorriso si affievolì, si chiuse letteralmente come le tende di un sipario e la bocca ridivenne un segno rosso e severo.
Udirono dei passi affrettati. Guardando entrambi verso la cima della rampa, videro un ragazzo giungere di corsa. Indossava una tuta blu, sporca, grosse scarpe dalla punta d’acciaio, un grembiule d’amianto che sbatteva sulle cosce in rapido movimento. Si fermò davanti ai due signori e si tolse il berretto in segno di rispetto timoroso. Non dimostrava più di tredici, quattordici anni, un volto tondo, ancora imberbe, una zazzera riccioluta di capelli scuri, tra le macchie sfumate di fuliggine e pulviscolo inerme, brillavano due occhi marroni, iniettati di sangue dal poco sonno, dalle polveri e dalle vampe della fonderia.< Sono Dalan, apprendista di secondo livello, signor Padrone. Il capo-turno mi ha detto che avevate bisogno di me.
l’apprendista era sul punto di domandare il perché ma davanti aveva il Padrone ed ai padroni gli era stato duramente insegnato, non si chiedeva mai il perché delle cose.< Prego, signori.> disse invece. Armeggiò con un mazzo di chiavi che il capo-turno gli aveva lasciato in consegna ed aprì il portone, poi attese. Il Turnàd avanzò e gli rivolse un cenno con la mano, invitandolo a far loro strada. Dalan entrò e dopo alcuni passi s’arrrestò, davanti alla griglia del bruciatore principale che funzionava con rombo rabbioso consumando la sua accecante fiamma pilota in una continua combustione. Leuse e Gualtiero, una volta dentro richiusero l’uscio. Dalle sue spalle, Leuse gli porse un coltello. Il Turnàd lentamente prese l’arma da dietro e mantenendola così celata s’avvicinò al giovane operaio. Il ragazzo attendeva in piedi, nervoso, imbarazzato, intimorito. Si guardava attorno cercando di capire se c’era qualcosa che non fosse in regola ed a tratti, fugacemente, guardava timidamente i due adulti al cospetto dei quali, sapeva, doveva sottostare. Gualtiero avanzò verso il giovane, le mani intrecciate dietro la schiena: si sentì d’aggiungere. < Capisco. Certo. Da quella griglia si vede la fiamma pilota?> indicò un portello grande come un camino nel centro esatto del macchinario. < No signor Padrone, quella è la bocca del forno, la usiamo per bruciare rifiuti e i topi che ammazziamo quando ci capitano a tiro.
< Puoi aprirla? Voglio vedere le fiamme all’opera.> il ragazzo indugiò davanti a quelle richieste prive di ogni logica poi rispose affermativamente e gli girò le spalle per prendere un paio di guantoni da infilarsi. Con un lungo gancio di ferro sollevò il nottolino e aprì con un cigolìo sonoro.
urlò d’impulso Leuse. Dalan trasalì, Gualtiero estrasse il coltello e agì automaticamente. Una mano s’allungò verso il capo dell’operaio, le dita s’avvinghiarono ai riccioli scomposti, gli tirò la testa bruscamente all’indietro mentre la lama guizzava verso la gola candida. Il giovane strozzò l’urlo tra la sorpresa e lo sgomento mentre un istante dopo, uno spruzzo del suo sangue sfrigolò contro le fiamme della caldaia.
Il corpo, sussultante d’un’energia frenetica, tardò ad afflosciarsi fra le sue braccia: era un giovane robusto e ancora nei primordi del suo essere uomo. Turnàd sentiva il sangue caldo sporcargli le mani, colare giù lungo i polsi. Ben piantato con i piedi per terra, tratteneva il corpo morente incurante sul momento delle deboli mani che gli battevano sugli avambracci, artigliavano l’aria calda ed odorosa di carburante. D’improvviso strattonò con energia brutale la testa di Dalan, tirandola ancora più all’indietro, allargando lo squarcio e alimentando i fiotti del sangue vivace. Leuse lo affiancò. Occhi gelidi scrutavano con una luce famelica la morte che si stava consumando. Seguendo un impulso a Gualtiero incomprensibile, lei si chinò sul volto dell’apprendista e lo baciò sulla bocca spalancata. Un bacio lungo, avido, dove anche la bocca di Leuse si spalancava su quell’urlo soffocato e si muoveva famelica esplorando i recessi di un corpo che non avrebbe conosciuto altra carnalità se non quella necrofila di quella profanazione. Quando si staccò, l’espressione della donna era di nuovo mutata e mostrava un’anima ferina, sottolineata dal mento e le labbra imbrattate di sangue.< Dentro.> gli disse lei.< Gettalo dentro.> sembrava una ragazzina che istigasse il fidanzato a fare qualcosa di fantastico. Gualtiero sentì il corpo del ragazzo, appesantito dall’inazione scivolargli via, verso il basso. Si chinò, rinsaldando la presa. Lo afferrò saldamente per il colletto della tuta e la cintura porta-atrezzi, guardò Leuse con la bocca socchiusa in un commento senza parole e con energia lanciò il cadavere di Dalan nell’imboccatura animata dalle fiamme bianche. Il morto venne immediatamente avvolto in un rogo vivace e colorato, la sua sagoma sembrò cancellarsi nella luce del fuoco violento e nello stesso momento, in un’improvvisa esplosione misteriosa, il mondo che conosceva, svanì.
Il Turnàd fu investito e fu un battesimo di tenebre. Una fonte d’oscurità calò su di lui cancellando tutto quel che lo attorniava. Fu aggredito da un gelo mordente e la pelle bruciava come se scorticata. Il potente, il Padrone si rannicchiò come un cucciolo impaurito e bastonato; schiacciato da quel sospiro d’inferno.
Il buio che solitamente conosceva era quello tiepido e confortante del sonno, il rifugio dalla luce del giorno. La dimensione dove invece si trovava ora calato era squassata da frastuoni assordanti e l’oscurità era un plasma nero e pulsante di energie invisibili. Gualtiero Turnàd si sentiva chiuso sotto un’immensa palpebra fremente. Sotto di essa era un grumo insignificante, una fragile esistenza pronta all’oblìo per un semplice gesto o capriccio dell’entità che lungo quella notte tremenda dominava la fabbrica e il suo destino.
Senza spostarsi dalla posa fetale che aveva assunto, il Turnàd si premette le orecchie martoriate con le palme delle mani. Attuendo leggermente il frastuono e diminuendo così lo spaesamento che pativa, Gualtiero s’azzardò ad aprire gli occhi. Si trovava apparentemente sempre davanti alla fornace. La struttura ardeva intensamente e lanciava bagliori luminosi consumando, a tratti ballerini, gli angoli in ombra del vasto salone. La griglia del portello di ghisa, ora richiusa, gli appariva deformata, incurvata quasi dal calore ossessiva che emanava. Agli occhi del Turnàd sembrava un ghigno crudele. Al suo fianco si ricordò di Leuse e si girò per osservarla: ella stava ritta in piedi, nuda in tutta la sua statuaria e sensuale fisicità. Sulla pelle bianca e fine, il calore si rifletteva come sole sull’acqua. I serici capelli neri erano sciolti e liberi lungo la schiena dal profilo irresistibile. Fissava un punto in basso, rapita, i seni che si sollevavano aritmicamente in un respiro affannato, eccitato. Gualtiero si rialzò. Il rumore titanico che si ripercuoteva dolorosamente in tutto il suo essere, gravava come un maglio e l’uomo faticava a mantenere una postura eretta ma l’istinto competitivo non gli permetteva di rimanere nella polvere mentre la divina Leuse si slanciava nella sua figura a scapito dell’incubo che li aveva inglobati. Ora dritto, guardò nella direzione indicata dal rapimento della donna e si accorse che due occhi rossi restituivano lo sguardo dall’interno della caldaia. Il frastuono che l’ossessionava cambiò, non si abbassò a livelli accettabili ma i suoni rumorosi ed indistinti si riconfigurarono in parole intelligibili, fino a trasformarsi in un saluto:< BEN RITROVATO UOMO.>

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