Il
Turnàd si ritrovò per un istante infinito, privo di parole. Un ammorbante odore
di carne bruciata aveva riempito il locale e il calore violento che la caldaia
emetteva, pareva esaltarlo. Sebbene quei momenti erano invero alluminati
dall’ardore della combustione, Gualtiero si sentiva sprofondato nelle tenebre
più opprimenti e assolute. L’eco devastante della voce che lo aveva salutato
vibrava ancora nelle ossa, nei denti e nei visceri contratti dall’emozione
finché non si accorse di Leuse, improvvisamente prostrata sul battuto della
pavimentazione; meccanicamente la imitò. Accucciato, le braccia allungate come
il gesto di un anelito teso a qualcosa di tanto irraggiungibile quanto
agoniato, si accorse di come il sangue spruzzato dal garzone, avesse disegnato
un arco stupefacentemente regolare, come a marcare un confine tra quel misero
mondo terreno e la dimensione d’incubi e potenza che intuiva al di là.
La
presenza s’espresse nuovamente con fragore doloroso:< HAI CONTRASTATO LA TUA
COSCIENZA UMANA FINO A QUESTO PUNTO.
<Ho
dato prova della mia...> iniziò a dire Gualtiero. < TACI UOMO! INSULSA
FORMA DI VITA. SEI SOLO FANGO DI CARNE E DI SANGUE CHE STRISCIA SU QUESTO
MONDO.> il Turnàd sprofondò il volto nella polvere, le mani intrecciate
sopra il capo, come a proteggersi da gragnole di detriti che le parole
dell’entità scagliavano sulla sua impotente persona. In un ultimo,
insopprimibile tentativo di contrastare quella imponente sottomissione,
Gualtiero sollevò gli occhi verso la fornace e i bagliori lancinanti che
emetteva. Al suo fianco, nella medesima posizione, Leuse gli sussurrava
timorosi avvertimenti:< Gualtiero non osare sfidarlo...
<PICCOLO
IGNORANTE.> sentenziò la voce. Lo sguardo del Turnàd incrociò per una
frazione di secondo due punti luminosi che riuscivano a scintillare di maligna
vivacità attraverso le fiamme e un’impressione lancinante lo attraversò come
una staffilata, facendogli esplodere minuscole e diffuse scariche di dolore
dietro gli occhi, nella testa, lungo le viscere, attraversando il suo organismo,
impalandolo idealmente con l’idea stessa
di un tormento che non risparmiava nessun recesso del proprio corpo. La vescica
cedette con una desolante naturalezza e un gettito d’urina gli scaldò
l’inguine, inzuppando le braghe e colando, sgradevole, lungo le cosce tese. Il
bruciore dell’umiliazione lo portò a rannicchiarsi, tremante.
<ORA
POSSIAMO PARLARE> sentenziò l’entità.< COSA DESIDERI UOMO PER ESSER
GIUNTO FINO A ME?> Gualtiero cercò di ricomporsi almeno per rispondere
all’interrogativo; riprese la posa inginocchiata, le braccia di nuovo allungate
verso l’arco di sangue.< Potere.> balbettò. < Potere, ricchezza,
comando.> fece una pausa, aveva la bocca arsa dalla paura, il cuore
martellante. Le dita contratte nella terra annerita, rimanevano artigliate
nell’inconscio tentativo di mantenersi ancorato alla ragione, in procinto di sfuggire
nel limbo di un luogo remoto e inaccessibile. < NON POSSIEDI GIA’ TUTTO
QUESTO?> la domanda suonava quasi normale, donando a quella terribile
conversazione un tocco di banalità che sul momento rassicurò il capitano
d’industria. Il Turnàd scosse lentamente la testa, poi nuovamente, con una
determinazione più accentuata, un diniego nervoso, con una mossa del capo più
veloce e rabbiosa:< Non abbastanza.
A
quel punto, il rombo della combustione che riempiva il locale, parve smorzarsi
e il frastuono titanico che gli squassava l’anima ogni volta che l’ entità
proferiva parola, scomparve d’incanto, riempiendogli le orecchie con un
silenzio perfino fragoroso, in contrasto alla condizione precedente.
<
Gualtiero Turnàd.> si sentì chiamare. < La prego, si alzi. Ora dobbiamo
parlare d’affari.> la nuova voce suonava sospettosamente innocua, perfino
gentile; aveva il tono un maturo uomo di mondo che invitasse un suo pari a bere
cognac e fumare un sigaro conviviale.
Gualtiero, in piedi, sporco, impolverato, tentò di rassettarsi al
meglio, chiudendo la palandrana nel tentativo di nascondere le chiazze umide
sui calzoni. Il calore lo faceva sudare copiosamente, rivoli salati gli
attraversavano la fronte e le guance, la sua ombra con quella di Leuse, si
contorceva contro le pareti, una sorta di danza dove le immagini che osservava,
si accartocciavano e contraevano come un tenebroso pulsare di presenze
sconosciute. La voce ridimensionata della presenza, parlò ancora, da un punto non bene identificato, immerso nel buio
del locale, apparentemente alla destra del capitano d’industria:< Sono qui,
Gualtiero, prego.> Leuse, che fino a quel momento era come scomparsa dalla
percezione della realtà del Turnàd, ritagliò nuovamente la sua esistenza con un
singulto aspirato, quando i passi malfermi di una figura estranea, s’udirono
vicini a loro. Appariva come un vecchio, abbigliato con calzoni neri e una
palandrana grigia; un lezzo di muffa e marciume aleggiava tutt’attorno. Le
vesti erano lacere e impolverate, leggeri drappeggi di spesse ragnatele,
penzolavano impalpabili lungo le maniche sdrucite, le spalle secche e curve,
perfino dalle ispide e incanutite basette. Il Turnàd represse l’istinto di
allontanarsi ma agghiacciato, si fissava sul volto che gli stava rivolgendo la
parola, riconoscendone dei tratti terribilmente famigliari. Guardò meglio,
incredulo: stesse labbra sebbene rinsecchite, stesso naso imponente, stessa
espressione, fissata come nel granito di un’immagine araldica. Se stesso.
Cadavere.
Il
morto alla sua presenza gli elargì un sogghigno mentre accennava un rigido
inchino e si toglieva la tuba rosicchiata dalle tarme; i denti si snudarono
sulle labbra tirate, gialli e spezzati, un luccichio innaturale, s’accese dalle
pozze profondamente nere che scavavano le orbite apparentemente svuotate. Il
Turnàd strozzò un urlo d’orrore e raccapriccio e fece per voltarsi dall’altra
parte, nel tentativo vano di sottrarsi alla visione ma l’altro corpo, lesto e
fulmineo, gli fu addosso in un istante, afferrandogli con dita adunche la
testa, costringendolo così a ruotare nuovamente lo sguardo davanti all’
interlocutore che pretendeva la sua massima attenzione:< No.> sibilò la
presenza.< Guardami, Gualtiero Turnàd; guardami bene perché ti sto mostrando
quello che non sarai più.
<Mai
più?> ripeté, semi strozzato il Turnàd. Il cadavere scosse il capo, nel
farlo, sembrava d’udire lo scricchiolio sabbioso delle vertebre cervicali
irrigidite, un suono insopportabile, come il macinar d’ossa d’innocenti. <
Chiedi tanto, pretendiamo tanto. Dare e avere no? Una legge inderogabile del
mercato.
<Cosa?
Cosa volete? La mia... Anima?> le dita gelate mollarono la presa e
spintonarono leggermente il Turnàd, come a voler sottolineare la sufficienza
che il ricco ispirava.<L’anima...> ripeté il morto.<... Quella ce
l’hai data nel medesimo istante che hai sgozzato il tuo parente, all’Omnialudo
...
<
Le mie ricchezze...?> la voce era calata di un’ottava, bassa, circospetta,
timorosa. La cosa ridacchiò, un rumore simile a ghiaia sgranata sul ferro,
dalla bocca fetida, uscì un puzzo di carne marcia, soffocante:< Solo un uomo
poteva esprimere un simile timore! Cosa pensi che possiamo farcene, del tuo
denaro, nel nostro piano? No no, tranquillo, sguazza pure nelle tue cose, nei
tuoi valori. A noi interessa la corruzione.> La figura si chinò a terra
lentamente, brancolò con una mano per terra fino ad afferrare uno scarafaggio
nero. L’insetto, grosso e lucido, muoveva frenetico le antenne, nel tentativo
di decifrare, con la sua limitata capacità sensoriale, quel che si trovava
davanti. Le zampe si muovevano sulla carne fredda e grigia del braccio finché,
con la punta di un mignolo, il simulacro del Turnàd privo di vita, tracciò sul
carapace chitinoso, un ghirigoro. Lo scarafaggio s’irrigidì e con velocità
innaturale, iniziò a sciogliersi e squagliarsi in una poltiglia nera come
inchiostro e a colare nella polvere, imbrattando la mano ossuta. Con
noncuranza, l’essere si pulì sul bavero della palandrana, si grattò un
orecchio, rimuovendo da esso un piccolo verme giallo e indicò infine il Turnàd
vivente, appellandolo con voce perentoria e improvvisa:< Tu avrai due figli.
Uno a distanza di un anno dall’altro. Due tenere e candide vite il cui destino
dovrà necessariamente legarsi al tuo. Uno proseguirà la tua opera, l’altro si
dimostrerà diverso e potrà diventare uno spiacevole intralcio ai vostri e
nostri piani. Dovrai agire di conseguenza.
<
Dovrò uccidere...
<Piccolo
uomo banale... Dovrai viverci assieme, invece, seguire e valutare prima di
agire. Uccidere. Per favore! Dannare. Questo è il nostro stile.
<
Ma...
<
Tranquillo Gualtiero. Tieni a bada la tua insopprimibile voglia di fare e
agire. Ogni gesto ha il suo tempo, ogni azione il suo momento. Saprai quando
agire. Per il come... Non ora. Allora, vedrai e saprai.
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