domenica 23 ottobre 2011

Capitolo Sesto



Il Turnàd si ritrovò per un istante infinito, privo di parole. Un ammorbante odore di carne bruciata aveva riempito il locale e il calore violento che la caldaia emetteva, pareva esaltarlo. Sebbene quei momenti erano invero alluminati dall’ardore della combustione, Gualtiero si sentiva sprofondato nelle tenebre più opprimenti e assolute. L’eco devastante della voce che lo aveva salutato vibrava ancora nelle ossa, nei denti e nei visceri contratti dall’emozione finché non si accorse di Leuse, improvvisamente prostrata sul battuto della pavimentazione; meccanicamente la imitò. Accucciato, le braccia allungate come il gesto di un anelito teso a qualcosa di tanto irraggiungibile quanto agoniato, si accorse di come il sangue spruzzato dal garzone, avesse disegnato un arco stupefacentemente regolare, come a marcare un confine tra quel misero mondo terreno e la dimensione d’incubi e potenza che intuiva al di là.
La presenza s’espresse nuovamente con fragore doloroso:< HAI CONTRASTATO LA TUA COSCIENZA UMANA FINO A QUESTO PUNTO.
<Ho dato prova della mia...> iniziò a dire Gualtiero. < TACI UOMO! INSULSA FORMA DI VITA. SEI SOLO FANGO DI CARNE E DI SANGUE CHE STRISCIA SU QUESTO MONDO.> il Turnàd sprofondò il volto nella polvere, le mani intrecciate sopra il capo, come a proteggersi da gragnole di detriti che le parole dell’entità scagliavano sulla sua impotente persona. In un ultimo, insopprimibile tentativo di contrastare quella imponente sottomissione, Gualtiero sollevò gli occhi verso la fornace e i bagliori lancinanti che emetteva. Al suo fianco, nella medesima posizione, Leuse gli sussurrava timorosi avvertimenti:< Gualtiero non osare sfidarlo...
<PICCOLO IGNORANTE.> sentenziò la voce. Lo sguardo del Turnàd incrociò per una frazione di secondo due punti luminosi che riuscivano a scintillare di maligna vivacità attraverso le fiamme e un’impressione lancinante lo attraversò come una staffilata, facendogli esplodere minuscole e diffuse scariche di dolore dietro gli occhi, nella testa, lungo le viscere, attraversando il suo organismo, impalandolo  idealmente con l’idea stessa di un tormento che non risparmiava nessun recesso del proprio corpo. La vescica cedette con una desolante naturalezza e un gettito d’urina gli scaldò l’inguine, inzuppando le braghe e colando, sgradevole, lungo le cosce tese. Il bruciore dell’umiliazione lo portò a rannicchiarsi, tremante.
<ORA POSSIAMO PARLARE> sentenziò l’entità.< COSA DESIDERI UOMO PER ESSER GIUNTO FINO A ME?> Gualtiero cercò di ricomporsi almeno per rispondere all’interrogativo; riprese la posa inginocchiata, le braccia di nuovo allungate verso l’arco di sangue.< Potere.> balbettò. < Potere, ricchezza, comando.> fece una pausa, aveva la bocca arsa dalla paura, il cuore martellante. Le dita contratte nella terra annerita, rimanevano artigliate nell’inconscio tentativo di mantenersi ancorato alla ragione, in procinto di sfuggire nel limbo di un luogo remoto e inaccessibile. < NON POSSIEDI GIA’ TUTTO QUESTO?> la domanda suonava quasi normale, donando a quella terribile conversazione un tocco di banalità che sul momento rassicurò il capitano d’industria. Il Turnàd scosse lentamente la testa, poi nuovamente, con una determinazione più accentuata, un diniego nervoso, con una mossa del capo più veloce e rabbiosa:< Non abbastanza.
A quel punto, il rombo della combustione che riempiva il locale, parve smorzarsi e il frastuono titanico che gli squassava l’anima ogni volta che l’ entità proferiva parola, scomparve d’incanto, riempiendogli le orecchie con un silenzio perfino fragoroso, in contrasto alla condizione precedente.
< Gualtiero Turnàd.> si sentì chiamare. < La prego, si alzi. Ora dobbiamo parlare d’affari.> la nuova voce suonava sospettosamente innocua, perfino gentile; aveva il tono un maturo uomo di mondo che invitasse un suo pari a bere cognac e fumare un sigaro conviviale.  Gualtiero, in piedi, sporco, impolverato, tentò di rassettarsi al meglio, chiudendo la palandrana nel tentativo di nascondere le chiazze umide sui calzoni. Il calore lo faceva sudare copiosamente, rivoli salati gli attraversavano la fronte e le guance, la sua ombra con quella di Leuse, si contorceva contro le pareti, una sorta di danza dove le immagini che osservava, si accartocciavano e contraevano come un tenebroso pulsare di presenze sconosciute. La voce ridimensionata della presenza, parlò ancora, da un  punto non bene identificato, immerso nel buio del locale, apparentemente alla destra del capitano d’industria:< Sono qui, Gualtiero, prego.> Leuse, che fino a quel momento era come scomparsa dalla percezione della realtà del Turnàd, ritagliò nuovamente la sua esistenza con un singulto aspirato, quando i passi malfermi di una figura estranea, s’udirono vicini a loro. Appariva come un vecchio, abbigliato con calzoni neri e una palandrana grigia; un lezzo di muffa e marciume aleggiava tutt’attorno. Le vesti erano lacere e impolverate, leggeri drappeggi di spesse ragnatele, penzolavano impalpabili lungo le maniche sdrucite, le spalle secche e curve, perfino dalle ispide e incanutite basette. Il Turnàd represse l’istinto di allontanarsi ma agghiacciato, si fissava sul volto che gli stava rivolgendo la parola, riconoscendone dei tratti terribilmente famigliari. Guardò meglio, incredulo: stesse labbra sebbene rinsecchite, stesso naso imponente, stessa espressione, fissata come nel granito di un’immagine araldica. Se stesso. Cadavere.
Il morto alla sua presenza gli elargì un sogghigno mentre accennava un rigido inchino e si toglieva la tuba rosicchiata dalle tarme; i denti si snudarono sulle labbra tirate, gialli e spezzati, un luccichio innaturale, s’accese dalle pozze profondamente nere che scavavano le orbite apparentemente svuotate. Il Turnàd strozzò un urlo d’orrore e raccapriccio e fece per voltarsi dall’altra parte, nel tentativo vano di sottrarsi alla visione ma l’altro corpo, lesto e fulmineo, gli fu addosso in un istante, afferrandogli con dita adunche la testa, costringendolo così a ruotare nuovamente lo sguardo davanti all’ interlocutore che pretendeva la sua massima attenzione:< No.> sibilò la presenza.< Guardami, Gualtiero Turnàd; guardami bene perché ti sto mostrando quello che non sarai più.
<Mai più?> ripeté, semi strozzato il Turnàd. Il cadavere scosse il capo, nel farlo, sembrava d’udire lo scricchiolio sabbioso delle vertebre cervicali irrigidite, un suono insopportabile, come il macinar d’ossa d’innocenti. < Chiedi tanto, pretendiamo tanto. Dare e avere no? Una legge inderogabile del mercato.
<Cosa? Cosa volete? La mia... Anima?> le dita gelate mollarono la presa e spintonarono leggermente il Turnàd, come a voler sottolineare la sufficienza che il ricco ispirava.<L’anima...> ripeté il morto.<... Quella ce l’hai data nel medesimo istante che hai sgozzato il tuo parente, all’Omnialudo ...
< Le mie ricchezze...?> la voce era calata di un’ottava, bassa, circospetta, timorosa. La cosa ridacchiò, un rumore simile a ghiaia sgranata sul ferro, dalla bocca fetida, uscì un puzzo di carne marcia, soffocante:< Solo un uomo poteva esprimere un simile timore! Cosa pensi che possiamo farcene, del tuo denaro, nel nostro piano? No no, tranquillo, sguazza pure nelle tue cose, nei tuoi valori. A noi interessa la corruzione.> La figura si chinò a terra lentamente, brancolò con una mano per terra fino ad afferrare uno scarafaggio nero. L’insetto, grosso e lucido, muoveva frenetico le antenne, nel tentativo di decifrare, con la sua limitata capacità sensoriale, quel che si trovava davanti. Le zampe si muovevano sulla carne fredda e grigia del braccio finché, con la punta di un mignolo, il simulacro del Turnàd privo di vita, tracciò sul carapace chitinoso, un ghirigoro. Lo scarafaggio s’irrigidì e con velocità innaturale, iniziò a sciogliersi e squagliarsi in una poltiglia nera come inchiostro e a colare nella polvere, imbrattando la mano ossuta. Con noncuranza, l’essere si pulì sul bavero della palandrana, si grattò un orecchio, rimuovendo da esso un piccolo verme giallo e indicò infine il Turnàd vivente, appellandolo con voce perentoria e improvvisa:< Tu avrai due figli. Uno a distanza di un anno dall’altro. Due tenere e candide vite il cui destino dovrà necessariamente legarsi al tuo. Uno proseguirà la tua opera, l’altro si dimostrerà diverso e potrà diventare uno spiacevole intralcio ai vostri e nostri piani. Dovrai agire di conseguenza.
< Dovrò uccidere...
<Piccolo uomo banale... Dovrai viverci assieme, invece, seguire e valutare prima di agire. Uccidere. Per favore! Dannare. Questo è il nostro stile.
< Ma...
< Tranquillo Gualtiero. Tieni a bada la tua insopprimibile voglia di fare e agire. Ogni gesto ha il suo tempo, ogni azione il suo momento. Saprai quando agire. Per il come... Non ora. Allora, vedrai e saprai.

domenica 25 settembre 2011

Capitolo Quinto


Il respiro dell’Industria alitava fumi roventi dalle ciminiere, un vento già freddo spazzava la città fuligginosa e trasportava l’alito di un’attività, forgiata dalle fatiche e dal bisogno di uomini e donne, stretti nella morsa di una miseria, che divorava avidamente sentimenti, gioventù ed energie. Gli Stabilimenti Turnàd, anche nel profondo della notte, proseguivano la loro opera di produzione. La planimetria si divideva in due aree distinte dall’intensità dell’illuminazione: la Fabbrica Vecchia e la Fabbrica Nuova. La Fabbrica Nuova baluginava di luci elettriche che scintillavano tra i vapori degli altiforni. File di capannoni si susseguivano con regolarità schematica, disegnando uno scheletro di cemento ed acciaio che fremeva sulla pianura adiacente la periferia settentrionale. La Fabbrica Vecchia invece giaceva rannicchiata all’ombra del progresso che aveva ella stessa avviato. L’edificio di mattoni anneriti era stato costruito agli esordi della fortuna dei Turnàd, a ridosso di una bassa e nuda collina che con gli anni era cresciuta in altezza per l’accumulo di scorie. Ora che la vecchia struttura era passata in secondo piano nei progetti produttivi della Famiglia, gli impianti venivano mantenuti in funzione esclusivamente per la produzione di pezzi di ricambio. Un solo altoforno funzionava e vi lavoravano gli operai più giovani, come in una sorta di palestra dove allenare il lavoro per le produzioni più impegnative. Tra le sue mura si consumava quotidianamente la dura formazione degli apprendisti, si ribadivano le inderogabili regole della fabbrica, si versavano lagrime e fatica. Intere famiglie spendevano la loro esistenza sulle catene di montaggio e tra le colate di metallo fuso. Di giorno i minorenni integravano i magri salari avvitando bulloni, la notte conosceva la resistenza dei ragazzi e delle ragazze in età da marito. La Produzione si comportava come la vita dei poveri che sosteneva: consumava.
All’approssimarsi della mezzanotte, una berlina parcheggiò davanti all’ingresso della Fabbrica vecchia. Amòdas, il neoassunto autista di Gualtiero Turnàd scese ad aprire al padrone e con altrettanta discrezione ripartì, lasciando i due passeggeri al cospetto dell’impianto. Turnàd porse galantemente il braccio alla dama e fece strada, come se invitasse Leuse ad entrare in un locale elegante.
Entrarono da un accesso secondario, attraverso un portone metallico, passando nel reparto formatura. Nell’aria c’era un odore pesante di terra bruciata. Nel grande magazzino c’erano mucchi di terra scura, distribuiti in cumuli regolari per tutto il locale. Alcuni operai forniti di pale e carriole si avvicendavano attorno ad un grosso macchinario per il setaccio. Leuse si fermò un momento stringendosi addosso il mantello, osservando il lavoro in corso. Gli uomini parlavano poco, gettavano palate di terra nella tramoggia che vibrava violentemente. Un capo dallo sguardo severo osservava la miscelazione della terra nuova con quella di riciclo poi si staccava dal gruppetto e raggiungeva il personale che passava la terra di riciclo nelle molazze. Sbraitava loro parole incomprensibili, fagocitate dal frastuono dei macchinari, fino a spintonare un ragazzo che non gli appariva abbastanza solerte nelle sue mansioni. Gualtiero appoggiò una mano a dita aperte sui lombi di Leuse, spingendola delicatamente verso l’uscita del reparto. Al loro passaggio, gli operai s’interruppero il tempo necessario a togliersi il cappello e porgere un saluto al padrone con un ossequioso cenno del capo. Un sorriso duro, celatamente orgoglioso allargò il volto del Turnàd, lieto che Leuse avesse visto la sua autorità.< Ti temono.> osservò. < Mangiano grazie a me.> rispose lui, telegrafico. La donna non aggiunse altro. Gualtiero si muoveva con ritrovata dimestichezza passando dalla formatura alla fusione.
Il cuore dello stabilimento possedeva le dimensioni di una cattedrale. Una volta complessa di travi e pilastri copriva tre possenti convertitori. Gli apparecchi a forma di pera, alti sei metri svettavano, roventi al fondo del capannone. Emanavano un calore feroce, che aggredì le guance setose di Leuse e sembrava far aderire il mantello al corpo come una mano invisibile. Le colate di metallo fuso che venivano spillate da un operatore, gettavano manciate di scintille incandescenti che rimbalzavano sul pavimento, lastricato di materiali refrattari. Una luminosità rosseggiante dominava ovunque e le ombre ballavano guizzanti in ogni cantone. Turnàd fece cenno a Leuse di raggiungerlo. Il rombo dei forni cercava di sovrastare la voce dell’industriale e le parole di Gualtiero uscivano a forza di urla roboanti:< Qua arriva la ghisa.> spiegava con lo sguardo sbarrato sulla produzione in corso.< In questa fase la percentuale di carbonio, in essa, è troppo alta. Così la lega risulta troppo dura e fragile, praticamente inservibile. Tocca ai convertitori. Si cola la ghisa dentro, sul fondo del convertitore si trova una camera dove viene pompata aria.> Leuse sentiva rivoli di sudore scorrerle per tutto il corpo, come una corsa di formiche lascive. La combinazione di calore e frastuono aveva un effetto stordente e senza accorgersene, si era appoggiata alla spalla di Turnàd, con l’alito delle sue parole entusiaste che colpiva le sue orecchie.< Allora?> la domanda, dal tono impertinente, era una piccola provocazione per alimentare l’esaltazione di Gualtiero. Lui le strinse la vita e con lunghi passi energici la fece girare attorno ai convertitori, proseguendo la sua spiegazione:< Con l’aria s’immette ossigeno, che reagisce assieme al carbonio.> a sottolineare le sue parole, dalle bocche dei convertitori, fuoriuscirono delle fiammate abbaglianti. Il reparto, fotografato dalla vampa, sembrò raggelarsi in un flash gigantesco. Alcuni uomini, addetti alle colate, apparvero come figure immobili, statuine cotte dalla furia di un vulcano. Quel mondo fatto di fiamme, fumi e metalli roventi che sprizzavano ovunque, appariva come un negativo del fresco mondo reale. Gli operai passavano ore ed ore sotto quella cappa, sudavano, respiravano l’aria acre attraverso maschere che negavano il volto e quindi la loro identità. Leuse, assistendo all’attività frenetica, meccanica e rischiosa dei lavoratori, cominciò a comprendere la scelta di quel luogo. Un’intuizione sonnolenta, emersa lentamente tra una colata di metallo fuso e il cigolio di una siviera colma. La vecchia fabbrica era un luogo di trasformazione, di rinascita degli elementi in altri elementi. I crogiuoli ribollenti ricordavano l’agitarsi della vita in un grembo apocalittico. Il metallo fuso era la parodia di fresche acque portatrici di vita, la sofferenza, la rabbia sorda, l’assenza di letizia e felicità, l’antitesi dei desideri. Il succo dello sfruttamento dell’uomo sul suo prossimo. Le condizioni estreme degli operai diventavano mute preghiere di un riscatto che non sarebbe mai giunto. Dove l’ossigeno si bruciava, anche le speranze sembravano destinate ad analoga sorte. Sorrise, Leuse, mentre Gualtiero l’accompagnava oltre, puntando verso una scala metallica. < Andiamo all’appuntamento?> chiese lei. < Un momento.>
La scala si collegava ad un ballatoio che sovrastava l’ambiente; al fondo c’era un gabbiotto nel quale si trovava l’ufficio del responsabile di produzione. Turnàd aprì la porta ed entrò senza dir nulla. Il responsabile di turno si alzò di scatto dalla sedia, quasi rovesciandola e balbettando un saluto. Era un giovane uomo sui trent’anni, pallido e magro con un camice blu che gli pendeva addosso. Gualtiero gli domandò l’elenco degli operai di turno, l’altro glielo porse subito e ritornò in un cantuccio, fissandosi la punta delle pesanti scarpe da lavoro. Perentorio, il padrone gli chiese qual’era l’apprendista più giovane in servizio quella sera. < Gillo. Gillo Dalan. Perché?> Turnàd non rispose. Estrasse l’orologio dal taschino e disse:< Verso mezzanotte ho bisogno di lui. Me lo mandi al locale caldaie, nel seminterrato.> il capo turno non ritenne opportuno aggiungere altro e mise a posto l’elenco che Gualtiero gli aveva gettato sulla scrivania.
Turnàd scese rumorosamente le scale metalliche, prese Leuse per un gomito e l’accompagnò con un passo improvvisamente affrettato verso il fondo del capannone. Lei taceva seguendolo come un’ombra avvenente. La coppia una volta allontanatasi dalle linee di forgiatura del complesso scese lungo una rampa che digradava sotto il livello del suolo. La luminescenza incandescente dello stabilimento fu sostituita da una penombra fredda, rischiarata dalla luce cruda di piccole lampadine che costeggiavano i muri del seminterrato fino ad un pesante portone metallico, torchiato da grossi bulloni rotondi ed arrugginiti. annunciò Gualtiero con voce apparentemente ferma. Lei annuì stringendosi nel mantello.< Siamo puntuali?> Gualtiero consultò l’orologio e lo intascò con un movimento fluido:< la mezzanotte scoccherà tra dieci minuti.> annunciò. Leuse sospirò, fissò il Turnàd negli occhi e parlò con tono severo:< Ascoltami bene, ora. Una volta dentro non ho un’idea precisa di quel che accadrà. Per ora preoccupati di essere puntuale, non parlare. Porti simboli religiosi?> lui scosse il capo, affascinato per l’ennesima volta dalla bellezza levigata della donna. Guardò una seconda volta l’orologio, maledicendo la lentezza estenuante di una manciata di minuti, volatile barriera che lo separava da un grande mistero.< Sei minuti.> scandì nervoso. Leuse sorrise enigmatica e gli disse. dopo, senza dire altro s’avvicinò al capitano d’industria e lentamente, con una mano emersa dalle pieghe del mantello, gli accarezzò la patta dei pantaloni. Gualtiero sussultò sorpreso dalla mossa improvvisamente ardita e dalle profondità delle sue inquietudini, emerse un fiotto di desiderio che aiutò una lenta ma progressiva erezione. Sospirò profondamente mentre il tocco di Leuse proseguiva, seguendo la forma del pene attraverso il tessuto. Il Turnàd si mosse in avanti ma la donna lo fermò.< No. Tieniti così per dopo> il suo sorriso si affievolì, si chiuse letteralmente come le tende di un sipario e la bocca ridivenne un segno rosso e severo.
Udirono dei passi affrettati. Guardando entrambi verso la cima della rampa, videro un ragazzo giungere di corsa. Indossava una tuta blu, sporca, grosse scarpe dalla punta d’acciaio, un grembiule d’amianto che sbatteva sulle cosce in rapido movimento. Si fermò davanti ai due signori e si tolse il berretto in segno di rispetto timoroso. Non dimostrava più di tredici, quattordici anni, un volto tondo, ancora imberbe, una zazzera riccioluta di capelli scuri, tra le macchie sfumate di fuliggine e pulviscolo inerme, brillavano due occhi marroni, iniettati di sangue dal poco sonno, dalle polveri e dalle vampe della fonderia.< Sono Dalan, apprendista di secondo livello, signor Padrone. Il capo-turno mi ha detto che avevate bisogno di me.
l’apprendista era sul punto di domandare il perché ma davanti aveva il Padrone ed ai padroni gli era stato duramente insegnato, non si chiedeva mai il perché delle cose.< Prego, signori.> disse invece. Armeggiò con un mazzo di chiavi che il capo-turno gli aveva lasciato in consegna ed aprì il portone, poi attese. Il Turnàd avanzò e gli rivolse un cenno con la mano, invitandolo a far loro strada. Dalan entrò e dopo alcuni passi s’arrrestò, davanti alla griglia del bruciatore principale che funzionava con rombo rabbioso consumando la sua accecante fiamma pilota in una continua combustione. Leuse e Gualtiero, una volta dentro richiusero l’uscio. Dalle sue spalle, Leuse gli porse un coltello. Il Turnàd lentamente prese l’arma da dietro e mantenendola così celata s’avvicinò al giovane operaio. Il ragazzo attendeva in piedi, nervoso, imbarazzato, intimorito. Si guardava attorno cercando di capire se c’era qualcosa che non fosse in regola ed a tratti, fugacemente, guardava timidamente i due adulti al cospetto dei quali, sapeva, doveva sottostare. Gualtiero avanzò verso il giovane, le mani intrecciate dietro la schiena: si sentì d’aggiungere. < Capisco. Certo. Da quella griglia si vede la fiamma pilota?> indicò un portello grande come un camino nel centro esatto del macchinario. < No signor Padrone, quella è la bocca del forno, la usiamo per bruciare rifiuti e i topi che ammazziamo quando ci capitano a tiro.
< Puoi aprirla? Voglio vedere le fiamme all’opera.> il ragazzo indugiò davanti a quelle richieste prive di ogni logica poi rispose affermativamente e gli girò le spalle per prendere un paio di guantoni da infilarsi. Con un lungo gancio di ferro sollevò il nottolino e aprì con un cigolìo sonoro.
urlò d’impulso Leuse. Dalan trasalì, Gualtiero estrasse il coltello e agì automaticamente. Una mano s’allungò verso il capo dell’operaio, le dita s’avvinghiarono ai riccioli scomposti, gli tirò la testa bruscamente all’indietro mentre la lama guizzava verso la gola candida. Il giovane strozzò l’urlo tra la sorpresa e lo sgomento mentre un istante dopo, uno spruzzo del suo sangue sfrigolò contro le fiamme della caldaia.
Il corpo, sussultante d’un’energia frenetica, tardò ad afflosciarsi fra le sue braccia: era un giovane robusto e ancora nei primordi del suo essere uomo. Turnàd sentiva il sangue caldo sporcargli le mani, colare giù lungo i polsi. Ben piantato con i piedi per terra, tratteneva il corpo morente incurante sul momento delle deboli mani che gli battevano sugli avambracci, artigliavano l’aria calda ed odorosa di carburante. D’improvviso strattonò con energia brutale la testa di Dalan, tirandola ancora più all’indietro, allargando lo squarcio e alimentando i fiotti del sangue vivace. Leuse lo affiancò. Occhi gelidi scrutavano con una luce famelica la morte che si stava consumando. Seguendo un impulso a Gualtiero incomprensibile, lei si chinò sul volto dell’apprendista e lo baciò sulla bocca spalancata. Un bacio lungo, avido, dove anche la bocca di Leuse si spalancava su quell’urlo soffocato e si muoveva famelica esplorando i recessi di un corpo che non avrebbe conosciuto altra carnalità se non quella necrofila di quella profanazione. Quando si staccò, l’espressione della donna era di nuovo mutata e mostrava un’anima ferina, sottolineata dal mento e le labbra imbrattate di sangue.< Dentro.> gli disse lei.< Gettalo dentro.> sembrava una ragazzina che istigasse il fidanzato a fare qualcosa di fantastico. Gualtiero sentì il corpo del ragazzo, appesantito dall’inazione scivolargli via, verso il basso. Si chinò, rinsaldando la presa. Lo afferrò saldamente per il colletto della tuta e la cintura porta-atrezzi, guardò Leuse con la bocca socchiusa in un commento senza parole e con energia lanciò il cadavere di Dalan nell’imboccatura animata dalle fiamme bianche. Il morto venne immediatamente avvolto in un rogo vivace e colorato, la sua sagoma sembrò cancellarsi nella luce del fuoco violento e nello stesso momento, in un’improvvisa esplosione misteriosa, il mondo che conosceva, svanì.
Il Turnàd fu investito e fu un battesimo di tenebre. Una fonte d’oscurità calò su di lui cancellando tutto quel che lo attorniava. Fu aggredito da un gelo mordente e la pelle bruciava come se scorticata. Il potente, il Padrone si rannicchiò come un cucciolo impaurito e bastonato; schiacciato da quel sospiro d’inferno.
Il buio che solitamente conosceva era quello tiepido e confortante del sonno, il rifugio dalla luce del giorno. La dimensione dove invece si trovava ora calato era squassata da frastuoni assordanti e l’oscurità era un plasma nero e pulsante di energie invisibili. Gualtiero Turnàd si sentiva chiuso sotto un’immensa palpebra fremente. Sotto di essa era un grumo insignificante, una fragile esistenza pronta all’oblìo per un semplice gesto o capriccio dell’entità che lungo quella notte tremenda dominava la fabbrica e il suo destino.
Senza spostarsi dalla posa fetale che aveva assunto, il Turnàd si premette le orecchie martoriate con le palme delle mani. Attuendo leggermente il frastuono e diminuendo così lo spaesamento che pativa, Gualtiero s’azzardò ad aprire gli occhi. Si trovava apparentemente sempre davanti alla fornace. La struttura ardeva intensamente e lanciava bagliori luminosi consumando, a tratti ballerini, gli angoli in ombra del vasto salone. La griglia del portello di ghisa, ora richiusa, gli appariva deformata, incurvata quasi dal calore ossessiva che emanava. Agli occhi del Turnàd sembrava un ghigno crudele. Al suo fianco si ricordò di Leuse e si girò per osservarla: ella stava ritta in piedi, nuda in tutta la sua statuaria e sensuale fisicità. Sulla pelle bianca e fine, il calore si rifletteva come sole sull’acqua. I serici capelli neri erano sciolti e liberi lungo la schiena dal profilo irresistibile. Fissava un punto in basso, rapita, i seni che si sollevavano aritmicamente in un respiro affannato, eccitato. Gualtiero si rialzò. Il rumore titanico che si ripercuoteva dolorosamente in tutto il suo essere, gravava come un maglio e l’uomo faticava a mantenere una postura eretta ma l’istinto competitivo non gli permetteva di rimanere nella polvere mentre la divina Leuse si slanciava nella sua figura a scapito dell’incubo che li aveva inglobati. Ora dritto, guardò nella direzione indicata dal rapimento della donna e si accorse che due occhi rossi restituivano lo sguardo dall’interno della caldaia. Il frastuono che l’ossessionava cambiò, non si abbassò a livelli accettabili ma i suoni rumorosi ed indistinti si riconfigurarono in parole intelligibili, fino a trasformarsi in un saluto:< BEN RITROVATO UOMO.>

domenica 11 settembre 2011

Capitolo Quarto

Al completarsi del primo mezzodì, con Il corpo terreno del defunto Viro Brunello Zock, nuovamente riposto nella candida Stanza dell’Attesa, seguì un lauto pranzo di commiato, al quale, Il Turnàd, partecipò senza appetito. Malgrado Il grigiore di quel giorno luttuoso fosse notevolmente impallidito, nella sala gravava un’atmosfera plumbea, che la padrona di casa si era premurata di porle accento, avendo fatto disporre sulla tavola imbandita, una fila di grossi candelabri di peltro, dalle sommità dei quali, ardevano le fiamme tremule di nere candele funebri. Nella Santa Chiesa Cattolica Draconiana, Il culto dei morti era un rito pervaso da una profonda austerità, ammantato da una sacralità pesante ed enfatica, sicuramente necessaria a coprire le radici pagane che possedeva. In fondo, Il culto dei morti, era come un cugino pazzo che la famiglia si premurava di far passare per simpatico eccentrico.
Nella rigorosa disposizione dei posti a sedere, Madama Magdalena Zock, aveva fatto sedere alla sua destra Ofelia e Gualtiero, alla sinistra, i nipoti, con rispettive famiglie, per ordine di anzianità e poi, a seguire, tutti gli ospiti. Tecnicamente, un occhio esperto alle genealogie, avrebbe dovuto intuire i vincoli di parentela solamente dalla disposizione degli invitati, ma Gualtiero non aveva la mente propensa a giochetti viziosi, In quel frangente. Poté soltanto notare che Leuse era piuttosto lontana, seduta eretta, Il lungo collo snello, leggermente inclinato verso la sua pietanza, Il profilo del volto cesellato che risaltava nel bianco alabastrino della carnagione. Inspirò profondamente dal naso, consapevole dell’attrazione morbosa che lo attanagliava ogni volta che poteva godere della sua vista. Un paio di posti più In la’, invece, distingueva l’uniforme da Dragone di Leone deSpad e la fulva chioma della sua consorte, cugina di Leuse. Attorno a Gualtiero, Il brusio costante di una lenta conversazione, parole a volte sussurrate, altre, mormorate sotto Il tintinnare delle posate e delle stoviglie. Udiva Ofelia, costantemente premurosa con la prozia In lutto. Trovava francamente stucchevoli le parole di sua moglie, difficilmente sopportabili per lui, dato che In esse intuiva le avanguardie degli aspetti che meno apprezzava nella donna che aveva sposato e In causa dei quali, la sua vocazione al tradimento era diventata col tempo così esuberante. A un tratto, In quella sua silente e intima considerazione, percepì Il bagliore di un sollievo, portato da una nuova e, sicuramente, appagante giustificazione al vortice d’empietà In cui si era da poco gettato: Gualtiero Turnàd aveva sempre tradito e ingannato ma questa volta, da quel tradimento così assoluto e madornale, aveva la certezza di derivarne un guadagno più forte di qualunque altro affare il padre e suo nonno non avevano mai concluso prima. Loro, prima di lui, avevano sfruttato e ingannato uomini e donne di tutti i ceti, avevano accettato d’essere zerbini nei momenti delicati e tiranni quando le esigenze lo richiedevano, ma mai avevano osato sfruttare l’insfruttabile, azzardare una speculazione così ardita come quella di usare l’occulto con la stessa spietata e vorace brama di guadagno e di potere. Gualtiero sì. Era conscio, certo, dei rischi che stava correndo e dalla notte dell’assassinio, aveva sfiorato lievemente la potenza che era andato a stuzzicare ma sentiva di avere alleati forti motivati e soprattutto, dotati d’esperienza.
Sopportò con celata mestizia Il pranzo, le prudenti e misurate parole che infarcivano il passaggio tra una portata e l’altra e infine, agognato, Il commiato con i suoi saluti lunghi ed estenuanti. Il prossimo appuntamento, era atteso fra tre giorni, alla tumulazione del defunto nella camera funebre. Ofelia sembrava restia a lasciare la parente nella sua disperata solitudine, si attardava stringendole la mano velata dalle trine di diafani guanti, mentre gli altri invitati defluivano verso le autovetture parcheggiate sullo spiazzo adiacente la magione. Gualtiero stava ritto, Nell’attesa sull’uscio, i pollici infilati nei taschini del panciotto di broccato. Una rabbia sorda e monocorde ringhiava dentro di lui, gli faceva serrare le forti mascelle con una pressione animale, le folte basette fremevano impercettibilmente, come le vibrisse di una fiera In caccia; a stento, riusciva a contenere l’istinto di strappare la prolissa consorte dalla sua trita opera consolatoria. Non era un imperdonabile spreco di tempo, quei momenti persi dietro le gonnelle di una stupida, ingenua vecchia gemebonda? Gualtiero indugiava, sul portone intarsiato. Alle sue spalle, Il flemmatico autista del defunto, si. fece avanti, sussurrandogli una breve frase all’orecchio: Il Turnàd gli rivolse la sua attenzione, le sopracciglia inarcate nell’espressione di un rinnovato interesse. Gualtiero prelevò un taccuino dalla tasca interna della sua palandrana e si segnò Il nome. disse avanzando verso le due donne. Il suggerimento di Amòdas fu accolto da Ofelia con un sorriso riconoscente e uno sguardo palpitante: lui scosse la testa con fermezza: la citazione dalla Sacra Enciclopedia fu l’apoteosi del suo congedo. Sotto. Amòdas, attendeva tenendo la portiera aperta.
Sulla strada del ritorno, l’autista domandò chiarimenti sulla destinazione: Verso le quattro del pomeriggio, la berlina procedeva lungo il viale principale di Cadmia. Non era una bella città, molto diversa dalla sontuosa capitale. Cadmia era nata come città mineraria e dai suoi palazzi bigi, dalle facciate anonime, dalle torreggianti ciminiere annerite dal fumo perenne che dalle loro bocche instancabili eruttavano, traspariva l’anima scabra ed essenziale che il centro urbano aveva acquisito nei suoi pochi secoli di vita. Aveva un solo cuore verde, Cadmia, un grosso parco malinconico sul quale spesso e volentieri stagnava l’umidità di un grosso lago dalle acque torbide, popolato da lunghi pesci color del piombo che occasionalmente affioravano per inghiottire piccole rane verdastre o palline di mollica gettate da bambinetti o mutilati claudicanti. Sui magri rami caliginosi d’alberi muti, si poggiavano grossi corvi guardinghi, magari dopo aver defecato In volo sulle spalle di qualche statua di granito, intitolata ad un generale oppure a qualche facoltoso capitano d’industria. A contorno di Quello scorcio di natura rassegnata, una cintura d’edifici sul cui granito il tempo e le industrie avevano disegnato schizzi di fuliggine, ostentati come decorazioni od onorificenze. Il Palazzo del Sindaco era il più alto ed aveva una torre aguzza con orologio dal quadrante che di notte s’illuminava di un chiarore pallido come Quello di una luna, Il tribunale aveva una lunga scalinata alla fine della quale, ci si trovava al cospetto dell’Angelo con la Bilancia, il cui sguardo di bronzo sembrava destinato a scrutare i meandri delle anime colpevoli che varcavano quella soglia. Ai suoi lati, due agenti della Polizia Reale, In alta uniforme, montavano di picchetto con i fucili lucidati e gli occhi fissi. Il Palazzo della Borsa era il più anonimo, nelle intenzioni dell’architetto che lo aveva realizzato settant’anni prima, c’era l’esaltazione di una sobrietà che doveva rilevare il valore di quel che accadeva all’interno, a scapito di un’inutile ostentazione esterna: possedeva ampie vetrate istoriate e un lungo porticato sottostante. A chiudere il quadrunvirato metropolitano, c’era l’antica sede della corporazione dei Fabbri, acquistata a suo tempo dal padre di Gualtiero e trasformata In Amministrazione Generale dell’Impero Turnàd. La Casa si sviluppava su quattro piani ed era adornata da due torri circolari, merlettate e coperte da tettoie a cono In mattoni rossi, sulle rispettive guglie, sventolavano due bandiere recanti il marchio dei Turnàd. Davanti alla sede, Amòdas parcheggiò e scese per aprire la portiera a Gualtiero. Il Turnàd gli voltò le spalle e varcò la soglia.
Con passi imperiosi, Gualtiero attraversò il vasto androne, lasciandosi alle spalle un solco ideale di capi chinati In ossequiosi e sottomessi saluti.
Io sono il vento. Pensava mentre disegnava il suo sentiero di riverenze ad ogni corridoio. Le orecchie captavano il rimbombo dei suoi passi, il ticchettare di centinaia di macchine per scrivere, ordinatamente posate su altrettante, piccole scrivanie, sulle quali impiegati e segretarie abbassavano lo sguardo e muovevano dita nervose. Nell’aria c’era odore d’inchiostro e carta. Il Turnàd inspirava forte dalle narici il sentore dell’attività, il motore del suo guadagno ed era sicuro d’avvertire un’energia dietro quella teoria di sensi e di azioni, l’energia sotterranea e possente dell’Impresa. Sapeva senza vedere, senza leggere lui sapeva che il riversarsi dell’inchiostro sulle carte dattiloscritte, sanciva movimenti di uomini e mezzi attraverso tutto il continente e trasportava cifre di denaro quali nessun dipendente non avrebbe mai posseduto In tutta la sua mesta esistenza.
Gualtiero Turnàd assaporava quella sua personale e quasi onanistica onnipotenza tutti i giorni della sua vita, da quando le redini delle attività erano passate nelle sue mani eppure, quel giorno, la sensazione era mutata. Gli appariva più fioca, debole, a tratti perfino modesta a dispetto della sua egemonia fuori e dentro i confini del Regno. Ciò che pregustava per il futuro, era destinato a rendere l’Impresa, soltanto una rotella impegnata a svolgere il suo bravo, automatico lavoro nell’interesse di un più complesso macchinario.
Il suo ufficio, occupava il penultimo piano del palazzo. Un finestrone circolare, dominava la parete alle spalle della sua poltrona e regalava una panoramica di Cadmia con, stagliate sull’orizzonte bigio, le torreggianti ciminiere delle officine meccaniche e della vicina acciaieria. Fumo nero e denso, chiazzava quel cielo tardo autunnale, velandolo di un’oscurità precoce che ammantava la città di una malinconia decadente. Quello stesso ufficio aveva conosciuto tanto l’amore fugace e pruriginoso che Gualtiero talvolta, un po’ distrattamente, si concedeva di consumare con qualche segretaria intimorita, quanto la morte improvvisa e sorprendente del nonno Yan. Ai suoi occhi era sempre apparso una sorta di mito lontano, ammantato da un’aura di rispetto reverenziale verso colui che aveva definitivamente proiettato i Turnàd nelle sfere superiori della società aviana. Figura mai conosciuta ma costantemente evocata da miriadi di racconti ed aneddoti da parte del padre, che non perdeva mai occasione di citarlo. In età più adulta, Gualtiero si era fatto idea che il perenne ricordo del nonno, fosse un’obbligo morale o, ancor più segretamente, un singolare tentativo di evocazione di un morto, sradicato dal mondo dei vivi, senza aver vissuto la soddisfazione tutta animale e maschile dell’assistere al proseguimento del proprio sangue. A volte, si era anche fatto l’idea inquieta e poco rassicurante, che l’anima del defunto parente si agitasse all’insaputa della realtà ordinaria, costantemente In bilico tra i due mondi, nel disperato tentativo di rubare qualche istante della vita al nipote, che stava portando il testimone delle sue fatiche e dell’ingegno.
Il richiamo di un ricordo che non gli apparteneva, era, per Gualtiero, un’intensa opera di ricostruzione, dove In sostituzione della memoria, agiva la fantasia. Allora, gli eventi, gli episodi, gli aneddoti diventavano materia duttile ma intangibile, che si poteva forgiare ad esclusivo uso e consumo del proprio creatore e utilizzatore. Era gioco, gingillo col quale il gran capitano d’industria amava occasionalmente sollazzarsi, come la canonica ora d’aria che si concedeva ai carcerati, per alleggerire il grande carico di responsabilità che quotidianamente doveva sobbarcarsi, all’oneroso piedistallo del suo dominio. Chiuso nella fortezza della sua mente, Gualtiero, lasciava che il simulacro del predecessore si formasse gradatamente, scegliendo con cura i racconti che gli sovvenivano, come impegnato nell’assemblaggio di un modellino, alla ricerca dei pezzi più adatti.
Yan Turnàd era stato un continuo riferimento nella sua fanciullezza, un modello da seguire, onorare e riverire In ogni occasione perché sue eran state le mani che avevano iniziato la fortuna della famiglia. Così il nonno aveva mani grosse e sgraziate, mani ancora da operaio, che In gioventù avevano conosciuto la cura deformante delle fonderie, la scuola sporca e sudata dell’arte dei fabbri-ferrai. Il corpo era conformato In conseguenza: tozzo, massiccio, testimone di un non ancora sopito vigore. Da lontano, mal gli si addicevano le costose palandrane che sfoggiava In società, i folti e cespugliosi favoriti che gli incorniciavano il volto. Tra i ricchi borghesi, che sorseggiavano con noncuranza aromatici spumanti fra gli stucchi dorati del Bar della Borsa, Yan Turnàd non appariva altro che quel che proveniva dal suo stesso passato: un artigiano arricchito da una violenta voglia di diventare. Soltanto il continuo montare dei suoi titoli In borsa gli permetteva di esser persona gradita alla loro presenza. Gualtiero aveva serie difficoltà a figurarsi un simile stato d’animo. Due generazioni di potere In salita, cancellavano piuttosto rapidamente certe spigolosità di classe. Pensava che quel sordo e sotterraneo moto nell’animo del parente, si potesse imitare, immaginando una forma di frustrazione costante ma spesso sotterrata davanti all’esigenza di intrattenere rapporti di reciproca opportunità. Il padre di Gualtiero rammentava spesso di come Yan Turnàd si adoperasse caparbiamente ad elevare socialmente la sua progenie. Aveva la consapevolezza che quel salto qualitativo, era possibile solamente alla generazione successiva la sua. Dentro di se’ sapeva che il suo essere aveva radici troppo profonde per essere estirpate. Sapeva di essere un rozzo provinciale che lottava contro il suo stato. L’abitudine di urlare dietro agli operai, come l’ultimo dei capi reparto, non si addiceva al freddo distacco che un capitano d’industria doveva avere nei confronti di Chi, sotto di lui, poteva vivere. Yan sentiva di non aver concluso la sua giornata se non eseguiva un giro d’ispezione lungo le linee, a respirare paura e timore reverenziale, fatica, sudore e stanchezza.
Gualtiero, sapeva che poteva comprendere fino In fondo quelle dimostrazioni d’autorità. L’umanità era una lunga serie di greggi, ogni gregge necessitava di una guida, altrimenti si sarebbe disperso. Il defunto vizioso Viro Brunello amava rammentarglielo quando, nelle sue visite pomeridiane, si premurava di istruirlo alle profonde e sacrosante interpretazioni che, l’Illuminata Sacra Enciclopedia celava tra le sue righe; grondanti verità sempiterne e tesori di saggezza senza tempo. Talvolta, forse come marchio di famiglia o palpito segreto lasciato In eredità dal padre del padre, anche lui sentiva il bisogno intimo di respirare la propria autorità, di avvertire i fremiti timorosi degli operai che, a capo chino e sguardo sfuggente, spiavano i suoi passi per i capannoni arroventati. Per contro, avvertiva una decisa distanza nell’abitudine che aveva, il vecchio Yan d’ostentare la propria ricchezza; nonostante la fama, le amicizie altolocate, le frequentazioni esclusive, l’anima scarsamente raffinata dell’artigiano divenuto Potente, affiorava In picchi improvvisi di volgarità inconsapevole. Il suo feticcio principale era un oggetto d’uso comune e frequente: Il portafoglio. Fra le sue mani, esso diventava una bandiera, un simbolo, un documento di riconoscimento; era uno scudo levato a proteggerlo dalla fastidiosa inoffensività dei gregari e dei sottoposti. L’enfasi dei suoi movimenti quando lo estraeva dalla tasca dei calzoni, gli era stata più volte raccontata con la stessa ricchezza di linguaggio e dovizia di particolari che un cronista avrebbe, diversamente utilizzato, per descrivere un numero di danza. Gualtiero si figurava quel momento, per il nonno, ammantato da trionfante e segreta soddisfazione, sottile autocompiacimento e una vena di sadismo, che nei Turnàd aveva sempre pulsato, da una generazione all’altra con alterna vivacità. Inclinava il corpo, lasciando gravare il peso su una gamba; faceva girare indietro il tozzo braccio, descrivendo un arco a suo modo elegante verso la tasca gonfia, In corrispondenza della natica. Estraeva la busta di cuoio diligentemente conciata. Indugiava, sulle note invisibili e inaudibili di un valzer tutto personale, tenendo il tronfio portafoglio tra le mani, come un uccellino caduto dal nido. Apriva il suo tesoro tascabile e scartabellava lentamente lo spesso mazzo di banconote. Con occhi vivaci e guizzanti, piccoli e luccicanti dardeggiava lo spazio che lo circondava, alla ricerca di sguardi invidiosi, moti di stizza, teste curiose, persone incapaci di mostrare indifferenza davanti alla teatrale attenzione nel saldare conti portentosi. Doveva essere il perpetrarsi di un rito, l’immolazione di una povertà che Yan Turnàd aveva sconfitto ed umiliato sull’altare del guadagno. Ogni volta che poteva sventolare la sua personale bandiera, Yan Turnàd affermava se stesso davanti all’universo, lui esisteva nel momento In cui pagava: poteva pagare, poteva esistere.
La medesima tracotanza emergeva quando, sempre spinto dalle correnti delle memorie passate, amava, un sabato ognitanto, accompagnare la sua consorte a far compere lungo i viali dorati della capitale. La nonna era una Metaberga, gocce di sangue blu impreziosivano le sue origini ed avvicinavano i Turnàd alla chimera di un titolo nobiliare. I Metaberga erano anche gelidamente razionali e il paventato scandalo che si poteva prospettare all’orizzonte, nel momento In cui era presa In considerazione l’unione In sacro matrimonio con un provinciale arricchito, era stato dissipato dalle possibilità di crescita economica che entrambe le famiglie avevano teorizzato, conti alla mano. La nonna di Gualtiero, tra l’altro, non aveva fama d’essere persona troppo inquadrata nelle convenzioni dell’epoca e la sua spiccata personalità, unita ad un’intelligenza lucida ed a tratti inquietante, non l’aveva resa un partito attraente. Non si era mai capito se Lara Metaberga fosse innamorata di Yan, i domestici non ricordavano liti alla loro presenza e quando necessitava, i coniugi, presenziavano l’uno saldamente agganciato al braccio dell’altra.
In una vecchia foto ingiallita; incorniciata e appesa ad una parete nel salone piccolo della reggia Turnàd, Lara appariva come una donna piuttosto bella, magra, lo sguardo reso ancor più sornione dalle palpebre un po’ pesanti che facevano sembrare gli occhi impigriti da un sonno interrotto. I capelli, castani, attorcigliati In pesanti boccoli formati da ferri caldi. Al suo fianco, nonno Yan. Le basette sempre più folte, i capelli brizzolati e scarmigliati, l’espressione ferma ed austera mentre posava davanti al fotografo. Gli occhi avevano la tipica luce spiritata che il lampo di magnesio sovente regalava. C’erano state sere che Gualtiero aveva studiato quella foto per ore intere, sorseggiando il suo cognac con il crepitare del fuoco nelle orecchie; scrutava le due figure alla ricerca bramosa di qualunque, piccolo, sotterraneo indizio che lo aiutasse a determinare il tipo di sentimento che aveva legato i due parenti e per quanto si fosse sforzato nello scovare un’ombra d’amore nei loro occhi oppure una curva di disprezzo nel taglio delle loro bocche, nulla sembrava intenzionato ad affiorare dalla carta impressionata. Davanti, non aveva le immagini di una coppia, bensì di due corpi che, dall’imponderabilità dei loro sarcofagi di carne e sangue ed ossa, proteggevano dall’analisi del futuro entrambi.
Era, in ogni modo, assolutamente sicuro delle loro profonde differenze. Tanto era sanguigno e talvolta villano, il nonno; tanto era silente, flemmatica e riflessiva la nonna. Gualtiero si domandava, appunto, come poteva sentirsi Lara, quando, con Yan si recava a Gorreal. Al momento dell'acquisto, Yan sfoderava la sua natura più diffidente e pretenziosa, era un’autentica maledizione per commessi e negozianti. Criticava continuamente qualunque prodotto gli fosse proposto, giudicava tutto con sufficienza ed ossessionava chiunque avesse a che fare con lui, nel momento della contrattazione, sulla ricerca della miglior qualità disponibile. Sia si trattasse di una veste da sera per la moglie che di prelibati formaggi nella miglior gastronomia della città, la spesa si protraeva per ore, sovente, costellata da litigi e battibecchi coi titolari, fino al gesto finale, all’enfatico sfoderare del portafoglio ed il conseguente garrire di banconote. Simile ad un apice orgasmico, una volta che, dentro di sé, Yan aveva placato il modesto fabbro-ferraio che ancora lavorava In lui, la sua persona si ridimensionava, il respiro era meno pesante ed ansimante, i gesti più composti. Attento e premuroso, controllava che l’autista caricasse borse e pacchetti nel bagagliaio della berlina e dopo, porgendo cavallerescamente il braccio alla sua signora, l’invitava a proseguire la passeggiata, cadenzando i passi con i colpi del bastone sul selciato.
Il tempo, sovente finiva annullato dalla capacità delle rimembranze, di calare l’individuo nel bel mezzo di una nube ovattata, dove le immagini si accavallavano alle sensazioni e le sensazioni ai sentimenti. In quel fenomeno, Gualtiero si accomunava ai più; così, anche per lui, il vagare con la memoria asportava le ore con precisione chirurgica, assolutamente indolore, rendendolo ignaro. L’imbrunire che sfumava lieve, In un tramonto velato dai fumi caliginosi delle ciminiere, lo colse sorpreso ed un po’ indispettito dalla perdita di preziosa realtà redditizia. I suoi occhi con un guizzo da rettile, si fissarono sull’orologio di bronzo che poggiava pesantemente sullo scrittoio, segnava le 18:45. Nessuno l’aveva disturbato, sapeva bene che prima di giungere alla sua persona esisteva un filtro, un’autentica barriera di delegati, funzionari e segretarie. Ormai, l’Impero Turnàd era un colosso che funzionava autonomamente, era un gigantesco organismo che produceva, vendeva e guadagnava seguendo la corrente dei bisogni e delle avidità delle nazioni. Era un tipo d’eternità, della quale lui ne rappresentava il capo. Gualtiero si alzò, uscì dall’ufficio e chiamò una premurosa segretaria abbigliata di grigiol’appellò senza altri preamboli aggiunse.
Alle 20.00, quando il buio aveva definitivamente conquistato la visuale dalle finestre dello studio, Leuse si fece annunciare. Gualtiero represse un impercettibile trasalimento, istintivamente, si toccò il finto dito. Occasionalmente, il moncherino pulsava di un dolore basso ma ostinato. La donna entrò nel suo ufficio. Indossava un mantello con cappuccio di raso nero, dal quale il pallore del suo volto spiccava, rifulgendo di una luminosità algida ed ultraterrena; le labbra accese da un rossetto color rubino intenso. Gualtiero avvertì un desiderio vorace, bruciante dentro di sé. Si alzò in piedi e le andò incontro; lei gli porse una mano guantata da baciare.
confessò il Turnàd, le girò alle spalle per aiutarla a togliersi il mantello, Leuse rifiutò: lui si fermò con le mani a mezz’aria.
proseguì con un disinvolto tono discorsivo. Gualtiero tornò ad occupare posto dietro la sua scrivania pensando che, seduto, avrebbe potuto dominarsi più facilmente. Con gli occhi si sforzava di indovinare le forme di Leuse, la sua nudità, ma il mantello era drappeggiato in modo impeccabile e non lasciava trasparire assolutamente nulla se non il volto. lei rifiutò con un leggero sorriso.
disse asciutta.
s’informò Gualtiero; era morbosamente curioso di tutto quel che l’attendeva, l’animo attraversato da un’ansia adolescenziale che s’imponeva di tenere a freno, sfruttando tutto il sangue freddo che riusciva a recuperare. Si trovava nell’anticamera della paura, scacciata dal potente magnetismo erotico di Leuse e dal vittorioso, inebriante sentore del potere al quale s’apprestava.
Gualtiero aveva ancora nelle orecchie l’eco remoto ma squassante del frastuono infernale, delle visioni allucinanti che avevano accompagnato il discorso del monsignore. < Rammento.
< Lo credo bene.> commentò lei. Gualtiero la fissò un momento, con insistenza: dunque Leuse aveva visto tutto quel che era accaduto durante la funzione funebre. Il Turnàd s’accomodò sullo scranno, idealmente trincerato dietro la scrivania, si accese un sigaro per tenere le mani impegnate e calmare l’ansia, che lenta lo stava prendendo. La prospettiva che Leuse potesse accedere con disinvoltura al mondo parallelo che si era manifestato durante la funzione, riusciva a lasciarlo stupito e non privo d’una timida riverenza nei confronti della donna. Ammirò il volto di Leuse. La sua bellezza era ipnotica e stupefacente, i tratti possedevano una regolarità ed una simmetria degne del cesello di un orafo.< Cosa mi devo attendere stanotte?> domandò Gualtiero con voce ferma, in sé, sperava che non trasparisse troppo la sua curiosità. La donna accennò un sorriso indecifrabile, si mosse nello studio come un’ombra e si affacciò alla finestra, Turnàd la seguì, ruotando sullo scranno. Lei osservava il profilo dei tetti inclinati degli stabilimenti in piena attività. Una notte spessa e densa anneriva il cielo sopra Cadmia, ne stelle ne Luna illuminavano il panorama, luci artificiali imperavano come rabbiosa affermazione dell’uomo sulla natura. Dai lucernai incastonati nelle volte dei capannoni, ardeva una luminosità rossastra che incendiava il quartiere industriale. File di lampioni segnavano le strade asfaltate e lo scalo ferroviario. Leuse seguì i passi di due uomini che spingevano un pesante carrello, dopo chiuse le tende e si volse a Gualtiero. Con voce ferma e gelida annunciò: Turnàd deglutì, ripensando all’assassinio di Zock. Più volte si era chiesto se ne fosse stato ancora capace. Quando la lama aveva aperto le carni del parente religioso, lui non era realmente consapevole del gesto. Corpo e anima si erano scissi, il braccio assassino era giusto uno strumento di carne, sangue, nervi ed ossa mentre la sua ragione viveva la sequenza delle sue azioni con il medesimo distacco di un osservatore esterno. domandò con falsa neutralità nella voce.< Una vittima designata. Un sacrificio per il demone che ti servirà.
sbottò Gualtiero Leuse si piazzò davanti a lui, altera, gli occhi che gli dardeggiavano il volto in un’indagine sprezzante: il Turnàd si mosse a disagio, una vampa di calore gli imporporò le guance. Improvvisamente, Leuse gli appariva lontana ed inespugnabile tanto che cominciò a pensare che tutto quel che era accaduto fra loro, fosse infine frutto di lubriche fantasie. chiese ancora Gualtiero. si rispose da solo.
Leuse sorrise di nuovo, sardonica. Camminava con lenta solennità e silenzio. Portava stivali di pelle nera con tacchi molto alti e sottili eppure quasi non la udiva. Turnàd scosse il capo come ipnotizzato dalle impalpabili movenze del mantello della donna. Leuse avanzò verso la porta, disse:< Andiamo.> Gualtiero si alzò automaticamente e la seguì.

Capitolo Terzo

Quella notte, Gualtiero ebbe visite inquietanti, dal mondo dei sogni; un caleidoscopio delirante, fatto di sangue e di sesso che vorticava confusamente nella mente, visioni di morte che fissavano la sua anima con occhi d’ombra. Sentiva un gran conflitto dentro di se’. I pungoli aguzzi del rimorso e della coscienza lottavano contro l’onnipotente delirio che, all’atto del dialogo con il demone, lo aveva attanagliato. Solo quando le sue spietate difese erano calate dall’abbraccio con l’omino del sonno, l’enormità del suo omicidio diventava un macigno pesante che gli gravava addosso. Aveva deliberatamente privato della vita un uomo, l’aveva fatto con convinzione e freddezza e ancora, nelle orecchie invase dal silenzio della sua stanza da letto, udiva il rumore del sangue di Zock che fiottava sul pentacolo. Per contro, anche l’immagine di Leuse, ammansiva il suo dilemma, la sensualità, scacciava la coscienza, lavandola via con la sua lascivia. Il ricordo, intenso e lancinante del loro fulmineo accoppiamento, lo deliziava e, nello stesso tempo, lo struggeva nel desiderio inappagato di un rapporto più duraturo e piacevole
. L’alba era sorta da poco, quando il maggiordomo anziano bussò nervosamente alla porta. La sua voce, tesa e grave, riusciva a filtrare attraverso il pannello lavorato senza essere rumorosa: -Signori? Signori, vi prego, svegliatevi, è urgente.- il sonno di Gualtiero si dileguò rapidamente, al suo fianco, Ofelia cominciava ad agitarsi sotto le coperte, il suo grembo, tondeggiante per il sesto mese di gravidanza, risaltava nel respiro, ora meno regolare.- Caro?- domandò con un filo di voce, Lui le accarezzò una guancia con due dita e scese dal letto, infilandosi una vestaglia di broccato, aprì. Il maggiordomo, vestito sempre impeccabilmente, anche a quell’ora, si scusò innanzi tutto del disturbo e dopo giustificò la sua inopportuna intrusione, comunicandogli la morte del Cardinale Zock. Gualtiero, in un lampo, ebbe chiaramente l’immagine del sangue che spruzzava nell’aria spessa del club Omnialudo. La sua reazione fu sicuramente scambiata per una forma di sgomento di fronte alla notizia appena ricevuta, il maggiordomo, dolente, aggiunse le proprie condoglianze.- La ringrazio, Alessandro.- rispose con voce grave – Per favore, avverta in ufficio che per oggi non potrò esserci, lasci detto all'amministratore Taget che troverà i programmi di produzione nel cassetto in alto a sinistra della mia scrivania e le quote d’investimento nella cassaforte piccola.- Alessandro prese nota su un piccolo taccuino e si accomiatò. Nel frattempo, Ofelia si era alzata. La sua gran pancia, rendeva la sua figura paradossalmente più gracile e minuta, forte era il contrasto fra le sue membra e il grembo; i lunghi capelli neri le incorniciavano il volto, rendendola particolarmente attraente, nonostante il frangente. Gualtiero le andò incontro, le prese le mani affusolate e l’invitò a sedersi, per comunicarle la notizia. Com’era nel suo carattere, Ofelia ne fu sinceramente addolorata, gli occhi s’inumidirono di lagrime e mille premure e mille preoccupazioni, fiorirono dalla sua bocca: - Dovrò mettere in contatto i miei genitori, zii e cugini, organizzare il rito funebre, arredare la stanza di culto..
-Faremo tutto, cara. Oggi ho rimandato tutti gli impegni. Sarò presente finché necessario.- lei gli elargì uno sguardo traboccante gratitudine, occhioni sgranati che galleggiavano in un pianto silente, luccicando alla luce dorata delle abat-jour. Gualtiero tirò fuori dall’armadio intarsiato il suo abito più austero, di buon panno nero e la palandrana lunga fino alle ginocchia mentre una delle cameriere preparava la veste da lutto di Ofelia.
Durante il viaggio da Cadmia a Gorreal, Gualtiero era sprofondato in un solido silenzio che lo schermava dalle amorevoli irruzioni di Ofelia. L’imminenza di qualcosa assolutamente madornale l’avvertiva in forma d’ansia. Lui era l’assassino che tornava a vegliare la sua vittima. Era la colpa che, camuffata d’innocenza, giocava beffe a tutto il mondo. L’idea di esser così abietto, mistificatore, falso di una falsità così assoluta da scagionarlo davanti a chiunque, lo sbalordiva e lo affascinava. Mai avrebbe creduto possibile che i peccati più colossali potessero essere sostenuti così facilmente. Era una contemplazione dell’infinito, che perde i suoi contorni proprio perché non era possibile ravvisarne i limiti. Nell’arco di una notte aveva tradito la moglie, la sua anima, si Era macchiato di un omicidio e aveva decretato un potere ineluttabile per se' e la sua progenie. Ofelia, il volto bianco come un foglio di carta immacolata, gli occhi sgranati e traslucidi, gettava sguardi timorosi in direzione del Turnàd, cercando uno spiraglio nel bastione silenzioso che lo cingeva con sorda determinazione. La donna si schiarì la voce, s’irrigidì sul sedile di cuoio e azzardò una domanda: - Gualtiero? Gualtiero.. Sai com’è morto?- Il Turnàd sembrò non aver udito le sue parole, rimaneva immobile e silente, apparentemente intento a osservare il paesaggio autunnale che sfilava dal finestrino della berlina di rappresentanza. Ofelia si pentì di avergli rivolto la parola e si ricompose, rigida, sul divano, stringendo le mani intirizzite nel manicotto di pelliccia che portava in grembo. Gualtiero rimuginò la domanda che gli era stata posta dalla consorte. Era infastidito, turbato e, a tratti, divertito. Per un istante, l’attraversò l’idea di spaventarla con la verità ma la stupidità della cosa lo dissuase; era un frangente grave e importante e lui doveva essere all’altezza della situazione. -Un’emorragia cerebrale. L’ha colto nel cuore della notte.
-E’ morto nella quiete e nella serenità del suo letto. Sono contenta di questo.- commentò lei con voce tenue. Gualtiero annuì lentamente con un cenno della testa, ripensando all’immagine di Zock, sgozzato che sanguinava sul pentacolo, le fiaccole che danzavano frenetiche, agitando ombre grottesche sulle mura di pietra umida.
Giunsero alla villa degli Zock quando il giorno si era appena consolidato. Già nel cortile antistante, numerose automobili stazionavano, ciascuna sorvegliata da un autista in uniforme. Sull’uscio principale, un maggiordomo in frac, introduceva gli ospiti. La prozia di Ofelia, avvolta in un alone di tulle nero, andò incontro alla parente con passo malfermo e la voce rotta. Nel salone, Gualtiero, riconobbe molti volti che aveva lasciato, intimoriti, poche ore prima. Inguainata in velluto nero, c’era anche Leuse, i capelli severamente tirati all’indietro e raccolti in una crocchia elaborata, lo sguardo glaciale puntato prepotentemente sulla sua persona. Gualtiero rimase fermo, squadrando i presenti che simulavano cordoglio e costernazione con consumata esperienza. Una cameriera con un vassoio, gli offrì un corroborante. Col bicchiere in mano e il passo prudente, Gualtiero si mosse fra i presenti fino a raggiungere Leuse. Lei era in piedi, l’anca sinuosa appoggiata ad un clavicembalo. Fu colto da vertigine. In un solo, sinuoso battito delle ciglia della donna, l'ambiguità di un incubo che gli aveva turbato il breve sonno, divenne confutazione della colossale verità. Gualtiero, in quell’istante di assoluta e spietata lucidità, realizzò definitivamente, senza ombra di dubbi ed estraniamenti l’impatto delle sue azioni, in altre parole un contrasto doloroso, sordo all’aria che respirava, agli odori che sentiva, al soffice tappeto che calpestava, tra l’enormità dei peccati di cui si era macchiato appena la notte precedente e un’allucinata indifferenza, riverberante ancora delle consolanti parole che il defunto assassinato gli aveva paternamente elargito al loro primo incontro, anticamera della sua dannazione. Leuse non cessava di studiarlo con i suoi occhi preziosi; ogni secondo che Turnàd era squadrato, osservato, a tratti oscenamente fissato, non era un semplice e prosaico guardarsi fra due adulti interessati reciprocamente, era un messaggio empatico, una complicità silenziosa, coperta dal sangue e dalle tenebre, saldata indissolubilmente da un segreto orrendo e lei, musa lasciva, ossessione femminea e sensuale che di Turnàd i sensi dominava, nonostante la maschera luttuosa che ostentava fra i presenti, lasciava trasparire davanti a Gualtiero l’assassino, una sorta di terrificante divertimento davanti alla situazione che stavano condividendo.
Gualtiero Turnàd fu avvicinato da una donna ingioiellata come un’icona luccicante, era vecchia ma non rassegnata all’impietosa patina di rughe che il tempo, inderogabile, le aveva intessuto con pazienza certosina. Un cammeo in avorio faceva bella mostra di se’ sul petto ingabbiato in un rigido busto, Gualtiero si concentrò sull’oggetto per non fissarsi sulle labbra raggrinzite e marcate con un rossetto porporino. Era una raffigurazione della croce cattolica draconiana: costituita da una spada, una bilancia e una corona di spine. Solo dopo aver ragionato un istante, riconobbe finalmente la sorella maggiore di Brunello Zock, Magdalena Zock, una figura rinsecchita al punto che probabilmente non aveva più lagrime da versare. Con voce roca, a tratti fiebile, gli stava parlando assieme: -… Nella notte. Come sempre aveva sognato, una morte serena, grata, degna di un uomo della sua bontà.- Gualtiero non riusciva a credere a una sola parola di quelle che erano elargite come una vana consolazione di fronte all’irreparabile. Al suo fianco si era materializzata Ofelia, un’espressione contrita, le mani sul grembo in atteggiamento protettivo. Baciò la parente sulle guance flosce e le parlò dolcemente, preoccupandosi di farla sentire circondata da un ideale abbraccio di solidarietà da parte di tutti i presenti. Gualtiero, seguitava a guardarsi attorno, osservando distrattamente i mobili ricoperti da centrini ricamati e la vasta panoplia di oggettistica sacra che faceva bella presenza di se’ in ogni angolo: crocifissi, ritratti di santi e martiri, icone; sotto le luci calde delle lampade che spuntavano dalle pareti broccate, come funghi velenosi sulla rugosa corteccia di alberi secolari. Gualtiero si sentiva ospitato in un convento di clausura, elegante e ricercato ma pur sempre oppressivo e angosciante. Soprattutto, al di sopra delle sue distratte osservazioni dell’ambiente domestico che aveva ospitato la sua prima vittima, lui cercava la figura flessuosa di Leuse, che era sempre là, ferma, in piedi vicino al clavicembalo che dominava il salone. Per un istante, una calda, irruente onda di desiderio gli accelerò i battiti cardiaci e immagini forsennate del loro fulmineo amplesso, sfilarono in un caleidoscopio conturbante davanti ai suoi occhi. Per un solo, fuorviante, imperituro battito di ciglia, Gualtiero si sarebbe completamente dimenticato di tutto il lutto che lo circondava, avrebbe afferrato quella figura dolorosamente sensuale e l’avrebbe nuovamente posseduta, con brama e lussuria, incurante della forma, del dolore vago che aleggiava tra i mobili laccati e gli altarini falsamente benedetti.
Leuse incrociò ancora il suo sguardo. Dietro la sua espressione grave, gli occhi tradivano una luce di complice divertimento. Col bicchiere fra le dita affusolate, il bordo accostato alle labbra accentuate da uno scurissimo rossetto, la sua sottile lingua rosea guizzò sulla superficie della bevanda, come una bellissima serpe che lappasse una ferita. Gualtiero represse un brivido di turbamento e si sforzò di concentrare la sua attenzione anche sugli altri astanti. C’erano volti noti. E c’erano volti che aveva visto poche ore prima, in un luogo che non doveva esistere, dove si facevano cose che non potevano essere concepite. Riconobbe il grasso e flaccido duca di Naterra, divoratore d’infanti, che in tuba lucida e frac dalle lunghe code, conversava gravemente con il Baronetto Zavi, rampollo di una nobiltà legata alla casa reale, brillante e promettente giovane avvocato, bello, i tratti delicati, baffetti sottili come ciglia di fanciulla, mostro abominevole, capace di efferatezze inimmaginabili quando la belva che, quieta, alla luce del giorno, sonnecchia nelle buie grotte della sua psiche, si risveglia in tutta la sua furente violenza selvaggia, senza alcun freno o inibizione di sorta.
Ofelia si era seduta su un divanetto rivestito di raso viola, continuava, amorevole e premurosa, a confortare la luttuosa prozia. Qualcuno, sedutosi al clavicembalo, intonò le prime note di una sonata stridente; la musica, ora, ammantava la scena con una cappa grottesca, dove tutti i presenti, si muovevano al suo interno come marionette meccaniche, eseguendo movenze, proferendo frasi e il cui tutto appariva assolutamente artificiale e programmato. Un invisibile giocattolaio, aveva dato la corda al teatrino con una chiavetta fatta a strumento. Gualtiero si ritrovò a muoversi in mezzo a quelle comparse come un sonnambulo, con passo lento, sguardo perso: un estraneo disorientato che improvvisamente, ha dimenticato il suo ruolo nella recita, uno strumento privo di spartito che ricerca disperatamente un’armonia con il resto dell’orchestra. Si muoveva tra i presenti scambiando cenni del capo, strette di mano e commenti mormorati, la musica del clavicembalo cominciava ad infastidirlo e si guardava continuamente attorno senza nemmeno sapere che cosa cercare. Andò a sedersi una poltrona di marocchino rosso, un cameriere gli offrì un secondo bicchiere di corroborante, che il magnate accettò silenzioso. Sprofondato tra i freddi cuscini di pelle, si sentiva leggermente meglio, dal suo arrocco, scrutava le altre pedine, studiandone i movimenti e la complessa armatura che schermava la verità dietro le loro figure. Lui ne era parte integrante, era un analogo, confratello, unito nel sangue, nella morte e nella cupidigia e la falsità che stava colossalmente ostentando, diventava un simbolo che lo aveva marchiato inderogabilmente. Assassino tra gli assassini, al cospetto di una delle vittime. Suonò una campana. Un servitore in livrea si affrettò all’ingresso. Gualtiero udì uno scambio di poche, ermetiche parole, tra le quali distinse un nome: deSpad. Udì passi pesanti e regolari risuonare sul parquet. Un uomo e una donna furono introdotti nel salone. La prozia di Ofelia si alzò per andare loro incontro. Gualtiero li studiava con insistenza, sfiorando l’indiscrezione nell’osservare la coppia. Il cognome udito, gli aleggiava nelle orecchie come il sussurro di un fantasma, qualcosa che era ben tangibile ma al contempo lontano e non bene identificato. Ammirò la donna. Era alta, giunonica, con i capelli di un rosso scuro che in boccoli pesanti, le ricadevano sulle spalle splendidamente tornite. Il volto era magro e questo guastava l’avvenenza generale della sua persona, i tratti risultavano induriti, severi e il grigio ferroso degli occhi acuiva quella sensazione. Malgrado ciò, si ravvedeva in ella, una famigliarità che faticava a riconoscere. La donna attraversò il salone con passo altero fino a Leuse, la quale abbandonò la sua posizione di comando dal clavicembalo e abbracciò la nuova venuta salutandola con calore. Gualtiero comprese il legame di parentela che accomunava le due donne. Poco dopo, vide giungere l’uomo, il marito, presunse. Era anch’egli una figura imponente, alto, spalle immense, il portamento rigido e impettito. Aveva folte basette castane, un bel naso aquilino, occhi fermi e severi. Indossava l’uniforme sociale dei Dragoni reali, nera con una doppia fila di bottoni d’oro, spalline gallonate, stivali lucidati a specchio, la sciabola portata in un fodero luccicante con cordoni di velluto blu intenso. Teneva il cappello infilato sotto un braccio e reggeva un calice mezzo pieno. In lui, Gualtiero, non ravvide pantomime di sorta. Il militare aveva l’espressione amara di chi conosceva la morte e come tale ne ostentava un rispetto sofferto e riverente. I suoi occhi, dello stesso caldo castano dei morbidi capelli ondulati, erano sì duri e freddi ma anche aperti e diretti, il suo, era lo sguardo di chi era abituato a mostrare tutto, senza timori, con la stessa scriteriata incoscienza di una carica di cavalleria.
Gualtiero attese con nuova impazienza che Leuse finisse i convenevoli con la parente e appena libera, ansiosamente le andò vicino per parlarle. -Posso sapere chi era quella donna?- lei gli voltò le spalle volgendo la sua attenzione verso un grosso ritratto del defunto cardinale.- Perché lo vuoi sapere?
-Non li conosco anche se il loro nome mi è famigliare.- Leuse sospirò: - Loro sono un’altra razza.- una pausa –Lei è Caterina degli Atlantis. Mia cugina prima. Ha sposato il Marchese deSpad. E’ questo il nome che ti ha colpito?
-Sì. Chi sono?- insistette lui. Leuse sorrise debolmente: -Chi sono? I deSpad sono una famiglia della Frolizia, nobiltà antica, legata alla casa reale da secoli. Difensori del regno e della chiesa. Rigidi, austeri. Soldati.- Gualtiero socchiuse le labbra, scaldate dall’alcool ma Leuse lo precedette: - Non sono membri del nostro club. Perché tutto questo interesse?- Turnàd non rispose, seguitava a osservare la rigida figura del marchese deSpad, rendendosi conto, in quel momento, che neppure lui sapeva rispondere. Da un momento all’altro, nonostante il gorgo di pensieri che gli vorticava nel profondo, anche se ossessivamente fissato da immagini mentali di sesso e di morte, di coscienza e di spietatezza, come la coppia di marchesi aveva messo piede nella magione degli Zock, un interesse assurdo, divorante, istantaneamente morboso l’aveva colto. Le parole di Leuse, teoricamente, avrebbero dovuto allontanarlo dai due nuovi arrivati, troppo diversi, apparentemente, dallo spirito famelico e lussurioso che stava attraversando l’anima di Gualtiero, come una nuova, misteriosa energia.
Il marchese poggiò con gesti riverenti la sua sciabola sopra un lungo cuscino di velluto rosso, posato sopra una mensola, sulla parete vicina all’ingresso della camera ardente, si fece il segno della croce ed entrò. Gualtiero, senza aver perso di vista i gesti e le movenze dell’altro, comprese che non aveva ancora visto la salma della quale era il diretto e immondo responsabile. Molto formalmente, si accomiatò da Leuse baciandole la mano eburnea e permettendosi un fugace tocco della di lei epidermide con la punta della lingua. Il gesto, insieme trasgressivo e segreto, provocò in lui un aumento della salivazione e il focolare di un’eccitazione che gli aumentava follemente le palpitazioni. Ancora col bicchiere fra le grosse mani, Gualtiero si avviò in direzione della camera ardente, abbandonò il calice su un tavolinetto di ciliegio laccato e si affacciò, con le palpitazioni che mantenevano la loro folle ritmica emotiva, passando un ideale testimone tra l’eccitazione erotica che il contatto con Leuse gli aveva donato ad un nervosismo tormentoso per le insopportabili incognite che l’idea di rivedere la sua vittima gli provocava.
Il corpo mortale del cardinale Viro Brunello Zock giaceva in posizione supina, tra le candide lenzuola di un giaciglio di ebano intarsiato. Indossava la serie completa dei suoi paramenti e gradi religiosi, una tunica porporina con inserti di broccato sontuoso, oro zecchino sulla tiara, sulla mitria e un crocifisso ingioiellato fra le dita gelide e artigliate fra di loro. Il suo volto, sbiancato dal sonno eterno e dalle soluzioni conservanti che gli erano state trasfuse in abbondanza, si mostrava ai vivi in illusoria serenità. I chirurghi funebri, avevano abilmente dissipato le sgradevolezze del rigor mortis, manipolando con maestria tendini e muscoli fino a far assumere un’aura di beatitudine al posto dello strazio che altrimenti si sarebbe impresso dopo la violenza della sua dipartita dal regno dei vivi. La camera era spoglia, muri nudi, di bianco abbacinante piastrellati e miriadi di lumini che opacamente si riflettevano sulle lisce superfici asettiche. Altre lampade, in acciaio inossidabile, tonde come oblò aperti sullo sfolgorio di una luce abbacinante, creavano un contrasto doloroso con l’aria cupa e le lampade fioche che dominavano il resto della casa, ma era un intervento indispensabile, perché nella mistica del culto dei morti, nella religione Cristiano Cattolico Draconiana, il deceduto, doveva esser vegliato in un ambiente essenziale, pulito, bianco e inondato di luce brillante, affinché la sua anima, avesse segnata la via verso la beatitudine della dimensione divina, ruggente di energia folgorante, potenza incommensurabile, possente ed esplosiva rivelazione finale. Secondo il rito, il corpo avrebbe così giaciuto per tre giorni e tre notti, dopo di che, l’involucro, ormai abbandonato dall’anima richiamata all’assoluto, sarebbe stato rinchiuso nella stanza funerea, dove il corpo, simulacro e rappresentanza della tangibilità umana sul mondo creato da Dio, sarebbe stato composto, nei secoli dei secoli, nel pieno della sua terrena bellezza, sempiterno ricordo di quel che di bello e di eccelso era stato e aveva compiuto durante la sua vita. Gualtiero provava un vivo disagio, non per la presenza del cadavere ma per quella del vivo che, deferente, contemplava la vittima con il capo chino e le mani giunte in basso. L’azzardo di un passo, produsse un suono amplificato dall’eco della sala e il militare, assorto, strappato alle sue meditazioni, spostò la sua attenzione verso il nuovo arrivato. Gualtiero colse l’occasione, avanzando di alcuni altri passi e porgendogli la mano. -–Sono il cavaliere del lavoro Gualtiero Turnàd. Sono mortificato. Non era mia intenzione disturbare la sua contemplazione.- l’altro s’impettì, battè i tacchi con uno schiocco secco e si qualificò, stringendogli la mano: - Colonnello Leone deSpad, comandante del quinto dragoni.- seguì una pausa, durante la quale i due uomini si osservarono con curiosità. Gualtiero notò con un certo fastidio che il suo interlocutore era almeno di una spanna più alto di lui e quella differenza fisica, unita all’austera uniforme che l’altro indossava con impettita disinvoltura, contribuivano a renderlo, nel complesso una figura imponente e autoritaria, forse, sul momento, più di quella che normalmente ammantava la figura di Gualtiero. - Turnàd.. Le officine meccaniche? Il cannone Turnàd?
-Precisamente.
-Splendida arma.-commentò telegrafico il colonnello. Gualtiero, che non aveva assolutamente intenzione di intrattenere una conversazione mondana sulle rispettive fortune di famiglia, cercò di deviare il discorso avvicinandosi al giaciglio. Nonostante i massicci interventi, riusciva a leggere il dolore, la sorpresa e la lotta per la vita che avevano plasmato e riconfigurato i tratti somatici del cardinale. Come un messaggio criptato, lui vedeva trasparire la realtà che era appartenuta al vuoto fantoccio di carne davanti al quale si trovava ora. – Lo conosceva bene?- domandò discretamente il colonnello deSpad.
-Era un parente di mia moglie. Lui ci aveva sposato e continuava a frequentare la nostra magione in qualità di parente, amico e consigliere spirituale. Una presenza indimenticabile.
-Comprendo
. -Lei? Come lo conosceva?-stavolta, Gualtiero faceva fatica a celare l’autentica curiosità che nutriva nell’interrogativo che aveva appena rivolto. DeSpad appoggiò una mano dalle dita forti e allungate sul bordo della testiera del letto. – Anche lui ci aveva sposato. - disse il militare. -L’avevo conosciuto in occasione di un Sinodo dei cappellani militari. Era venuto in visita al mio reparto e tra galantuomini c’eravamo subito trovati.- Gualtiero represse una risata di scherno. Viro Brunello Zock un galantuomo? Era un perverso mentitore peccaminoso e come tale, non riusciva a vedere altro in lui.
-Ho notato che la sua consorte si trova in stato interessante.- osservò l’ufficiale. -Che cosa c’entra?- chiese il Turnàd, curioso di osservare la reazione del suo interlocutore, di fronte a una domanda così diretta e, a tratti, imbarazzante nel frangente. L’altro non si scompose, continuando ad osservare la salma, rispose: -Una portatrice di vita al cospetto della morte. Vi vedo una continuità molto bella che, sono sicuro, il nostro Cardinale avrebbe certamente apprezzato.- Gualtiero tacque, lasciando che il suono delle parole appena espresse, esaurisse l’eco nella sala. Turnàd si schiarì la voce con un grugno sommesso, s’avvicinò al Colonnello e domandò, con sincero interesse, se si Era a conoscenza dell’allestimento scelto per la camera funebre del Cardinale. –Purtroppo la dipartita è stata troppo improvvisa, mia moglie ed io abbiamo lasciato la casaforte in Frolizia dove attualmente sono alloggiato subito aver ricevuto la tragica notizia. Quando mi ha visto, eravamo appena arrivati. Sono in possesso di scarse informazioni a riguardo.- Leone deSpad appariva saldamente trincerato dietro un sincero cordoglio, che si premurava di trasmettere dietro una conversazione ermetica e per nulla interessante. Gualtiero, per il momento incapace di trovare appigli per proseguire la conversazione e iniziare una conoscenza più approfondita, provò un moto di stizza che represse a fatica, limitandosi a scrutare, torvo, di sottecchi, il reticente interlocutore, sprofondato nella sua personale veglia alla salma. La figura del militare spiccava nel bianco virginale della camera come un’ombra su una parete nuda, sul pavimento di piastrelle lustrate a specchio, la sua sagoma, per un gioco di riflessi, sembrava sospesa su di un vuoto non identificato. Il Turnàd represse un primo impulso a lasciare l’anticamera funebre dato che non poteva accettare una sconfitta così smaccata nei confronti di un proprio obiettivo.
Cambiò tattica. Si avvicinò alla salma e con gesto lento e delicato ne accarezzò una guancia fredda e asciutta, color del ventre di un pesce appena pescato. La sensazione al tatto Lo lasciò, in un primo momento, indifferente, sotto i polpastrelli, poteva benissimo avere una pietra levigata. Analizzando meglio il frangente, invece, si accorse che un’emozione lontana, crepuscolare, iniziava a baluginargli nel cuore: la luce morente di uno sgomento che tendeva ad allontanarsi gradatamente ma inesorabilmente, un peso morto che Era inghiottito dalle acque melmose di un laghetto moribondo, verso l’oscurità di un fondo limaccioso. Gualtiero Turnàd si rese conto che quel peso remoto Era la sua pena per il morto. Una pena dall’amaro sapore della commiserazione per quel grasso uomo di chiesa, al quale la stessa chiesa non aveva saputo compensare la schiavitù della sua natura di pederasta, sodomita e dannato. Un piccolo, grasso peccatore, morto d’una morte più grande di quanto potesse aspettarsi e ipocritamente, accompagnato verso il suo eterno supplizio, con tutti gli onori e i lussi che in vero non doveva meritare. Turnàd sorrise alle ingiustizie che incrostavano il mondo come un morbo raccapricciante poteva intaccare l’integrità della carne di un fanciullo. Nulla Era integro. Neanche deSpad. Pensò Gualtiero insidioso, studiando il volto concentrato del soldato.
Indugiando nella sua carezza, attirò l’attenzione dell’altro, che inarcò un folto sopracciglio e gli parlò: - Mi perdoni. Se preferisce la lascio solo..
-No. – una pausa, studiata.- Di fronte alla fulmineità della morte, talvolta fatico a capacitarmi.
-Capisco.- deSpad si allontanò dal giaciglio e passeggiò brevemente, Lo sguardo perso nell’aria immacolata.- Io ho dovuto accettare velocemente la convivenza con la morte. Perché l’ho vista in faccia numerose volte in molteplici aspetti.- si fermò davanti a una grossa croce draconiana in bronzo, fissata alla parete dirimpetto alla posizione della salma con massicci bulloni di acciaio inossidabile.- Sono un reduce- specificò –Le guerre coloniali. Campagne d’Agria e Caprina. Inevitabilmente, il mio reparto subì perdite, come tutti gli altri; anzi, Mi piace pensare e cullarmi vanamente nella convinzione che ha avuto meno vittime d’altri. Questo, naturalmente, è un misero palliativo, un linimento inefficace che non cura le cicatrici che questa mia responsabilità comporta; quando mi è stato possibile, ho sempre presenziato ai riti funebri dei miei soldati morti. Ufficiali, sottufficiali o truppa che fossero. Il senso della perdita, nonostante tutto, malgrado anche la Fede, è sempre lancinante.
-In questo, Zock le era stato d’aiuto?
-Assolutamente. Mi aveva insegnato ad accettare questi dolori come penitenze, il sapore amaro che talvolta il comando lascia. Un male inevitabile e indissolubilmente legato alle nostre posizioni. Un uomo prezioso.- Gualtiero represse un sorriso tutto denti, famelico e imponendosi una curva greve sulle labbra, commentò: - Non s’immagina quanto.
Attraverso il candido uscio della camera ardente, Gualtiero Turnàd, avvertì il mormorio degli ospiti nel salone, aumentare d’intensità. Inarcò un sopracciglio, incuriosito e mosse alcuni passi verso le porte, per meglio cogliere l’origine del trambusto. Nello stesso istante, le ante furono spalancate da uno dei maggiordomi e Ofelia, premurosa, le mani nervosamente intrecciate fra di loro come un groviglio di pallide stecche, gli si mosse incontro, passettini affannati, un’espressione ansiosa sul volto incorniciato dal tulle nero dell’abito da lutto. –Caro- disse –E’ arrivata proprio ora la delegazione degli Esicasmici. Un loro superiore dirà messa per Brunello.- Gualtiero annuì con un movimento del capo lento ed accentuato, dopo, si volse indietro, rivolgendosi a bassa voce, al colonnello deSpad: -Chi sono?
-Uno speciale ordine di sacerdoti. Zock proveniva dalle loro fila.
-Non li conosco. Ignoravo perfino la loro esistenza.
-Esistono da oltre mille anni. Non si sono mai fatta gran pubblicità al di fuori delle cerchia ecclesiastiche. E’ l’ultimo ordine esistente d’ecclesiastici praticanti una forma di meditazione trascendentale, acquisita dalla Chiesa ai tempi delle sue espansioni in oriente. Posseggono particolari licenze tra cui il diritto d’esorcismo, la gestione delle rappresentanze estere e, soprattutto, facoltà di scomunica.- Gualtiero fissò ancora una volta la sua vittima, chiedendosi quante altre cose, quel vecchio pederasta gli aveva tenuto nascoste. –Sarà meglio lasciare la camera.- suggerì il colonnello. I padri vorranno vegliare il loro confratello.
Rientrarono nel salone, dove, nel mentre, il clavicembalo aveva cessato la sua musica discordante. I vari partecipanti, erano raccolti in piccoli crocchi mormoranti, intercalati dal rumore dei bicchieri che erano riempiti da vino e liquori. Ofelia era seduta a fianco della prozia e assieme a loro, vide un religioso, alto e talmente magro da rasentare la secchezza. Vestiva una tunica porporina con un corsetto di velluto vero. Tre croci draconiane, in oro luccicante, scintillavano sul petto come medaglie sulla pettorina di un generale. Il prete aveva un volto ossuto e scheletrico, con gli occhi profondamente incassati, un naso affilato e radi capelli grigi. Le mani, adunche, stringevano un rosario di peltro dalla struttura elaborata, con i grani cesellati in forma di teschi e di rose sbocciate. Ofelia vide il consorte in piedi, al centro del salone e richiamò la sua attenzione con mosse rapide del fazzoletto che continuava a stringere come un appiglio alla salvezza della sua anima. Gualtiero fu tentato di ignorare i richiami che lo stavano silenziosamente bersagliando poi, avanzò con studiata solennità fino al trio costernato. Non vedeva Leuse.
-Caro? Caro, voglio presentarti monsignor Hobelio.
-Monsignore..- mormorò il Turnàd, studiando meglio il religioso. Gli occhi del Cardinale avevano una freddezza che raramente, Gualtiero, rammentava di aver incontrato. Hobelio fissava il mondo attraverso un’iride color del ferro. -La perdita di un fratello è sempre un’occasione di dolore.- sentenziò con voce bassa e suadente –Ma la fede- proseguì, rivolgendosi a tutti coloro che apparivano a portata d’orecchio –Ancora una volta e ancora, ci dimostrerà la forza e l’amore che può donare al singolo credente.- una pausa, nella quale sorseggiò un vino color rubino. –Una straordinaria trasformazione, che muta la sofferenza in sollievo, in ultima analisi, il dolore in gioia; una gioia unica e difficilmente spiegabile, un’autentica forza che stronca la fiacchezza, tempra l’animo, forgia un popolo che non teme la morte, perché la morte è solamente transizione. Un’ascesa verso il mito e la beatitudine, l’illuminazione della luce divina, fonte d’eternità e assolutezza.
Gradatamente, la voce del padre esicasmico, s’era alzata di volume fino a riempire la sala tutta e calamitando l’attenzione di tutti i presenti. Gualtiero si scoprì intento a fissare i volti di sua moglie e della parente, totalmente rapiti nel breve monologo del nuovo arrivato. Guardandosi nuovamente attorno, rivide Leuse, seduta su una seggiola di ebano, le gambe accavallate, una caviglia, inguainata in velate calze nere che faceva maliziosamente capolino tra l’orlo della lunga gonna e una scarpa di lucida vernice. Il Turnàd, in quel preciso istante, avrebbe voluto essere inginocchiato ai suoi piedi, intento a baciare, adorante quella caviglia. La visione fu spezzata dal battito delle mani della padrona di casa. Altre porte si spalancarono. Qualcuno, seduto all’organo di casa, intonò una solenne marcia religiosa, accompagnando l’ingresso degli Esicasmici.
Entrarono in doppia fila, con precisione geometrica e sguardo fisso, perso verso un punto distante anni luce dal materialismo del mondo che temporaneamente li accoglieva. Indossavano tuniche color del sangue, paramenti neri, cappucci neri. Erano silenziosi a parte il fruscio delle vesti, i passi ovattati sui folti tappeti, il vago tintinnare dei rosari. Gli ospiti accennarono inchini riverenti e fecero spazio con un movimento spontaneo e contemporaneo, come un’involontaria coreografia, provata nell’intimità dell’inconscio. Sotto le luci fioche della casa a lutto, le figure degli Esicasmici proiettavano lunghe ombre coniche. La loro presenza era sottilmente inquietante. Senza scomporre la loro formazione e capitanati da Hobelio, entrarono nella camera ardente. Una luminosità sfolgorante gettò pennellate di luce chiara nel salone. Tutti gli invitati si genuflessero, mani giunte all’altezza delle labbra, le teste chine, come i più umili degli schiavi. Fioca come la fiammella di una candela moribonda, la Preghiera del Trapasso, fu intonata In un coro monocorde; su quelle note ipnotiche e cadenzate, gli Esicasmici uscirono dalla camera, trasportando la salma, perfettamente bardata.
Gualtiero Turnàd, dalla sua posizione, vide il corpo di Zock veleggiare sopra di lui, sospeso, a bordo del suo giaciglio, su un mare di tuniche rosse. La curva della sua bocca carnosa, appariva storta, sardonica addirittura, come un monello che sapeva di aver combinato qualcosa che gli altri non sapevano. Ridi vecchio coglione, pensava fra se il Turnàd, ridi pure perché una volta che avrai raggiunto i gironi dell’Inferno, ogni tuo ghigno sarà ripagato con millenni di dannazione.
Il corteo passò oltre i fedeli inginocchiati e quando Gualtiero fu sicuro di non essere a portata di orecchie scomode, bisbigliò una domanda al Colonnello deSpad: -Perché questa uscita anticipata?
-Solamente per la messa solenne nella cappella di famiglia. Un privilegio della sua posizione terrena.- Il Turnàd seguitò a sbirciare sommesso e nascosto la breve processione che attraversava, solenne il salone e usciva dalla villa per raggiungere la cappella degli Zock. Lentamente, gli invitati al cordoglio si misero sulla scia silente.
La chiesetta era stata eretta ducento anni prima da un devoto antenato, costruita In segno di gratitudine per certi non ben identificati “magnanimi favori” che l’Arcipapa dell’epoca aveva concesso. La sua struttura di pietra grigia, macchiata da formazioni di licheni scuri su tutta la superficie era di forma circolare, gusto classico. Una corona di colonne portanti circondava il corpo principale, sormontato da una cupola di spicchi di vetro macchiato dal tempo e dal filare di abeti resinosi che ne delimitavano il perimetro meridionale. Un vialetto di ghiaia immacolata accompagnava fino ad essa attraverso i prati maniacalmente rasati tutti i giorni dai giardinieri di famiglia. Sui muri, s’indovinavano ancora bassorilievi rappresentanti scene dalla Sacra Enciclopedia: Gualtiero distinse la Deflagrazione, ovvero la creazione del tutto dall’esplosione nel Nulla dell’energia Divina, la Prima Gloria, cioè la Creazione del Mondo, la Seconda Gloria, la creazione degli uomini e delle donne, l’Investitura, la legittimazione del Primo Monarca. Non poté fare a meno di notare la pregevole fattura dei lavori, eseguiti con cesello e passione maniacale. Un moto d’invidia, distratto, assolutamente incondizionato, lo colse, pensando che la sua cappella di famiglia, aveva neanche un secolo.
Rimuginando su quella, In definitiva, labile questione, si ritrovò all’interno dell’edificio religioso, Ofelia al suo fianco, occhi enormi, volto magro e minuto, ventre reso esuberante dalla maternità In corso. Davanti a lui, il deSpad, le spalle possenti, la schiena ampia, le onde morbide della sua capigliatura castana. Non vedeva Leuse. Sua moglie rabbrividì nell’atmosfera umida della chiesa. Dentro stazionava un’oscurità che sembrava radicata come le fondamenta secolari che sorreggevano il luogo di culto; una fioca illuminazione era fornita da un tremolante firmamento di candele che affollava dei telai di ferro battuto, murati direttamente nella cappella stessa, mentre dal grosso lucernario della cupola, filtrava una luce pallida, che cadeva In un perpendicolo quasi perfetto, proprio al centro dell’altare di marmo ellittico. L’altare poggiava su una piattaforma delimitata da bassi gradini ricoperti da tappeti porporini. I vetri delle strette finestre monofore, erano ornati da mosaici multicolori, raffiguranti Profeti, Teologi e Santi, tutti il più imparentati possibile con la famiglia Zock.
Gli invitati alla cerimonia, occuparono silenziosamente posto sulle panche ricoperte da piccoli cuscini neri, mentre gli Esicasmici deposero la salma ai piedi dell’altare. Il Cardinale Hobelio, prese posizione sul pulpito, di fronte a lui, una copia rilegata In marocchino, della Sacra Enciclopedia. Quando il religioso fu certo che anche l’ultimo degli invitati era seduto e silente, aprì il corposo volume, sfogliò alcune pigne crepitanti e si schiarì a sua volta la voce, producendo un rumore molto simile: -Il dolore della perdita- esordì con voce forte e chiara –E’ un aspetto indissolubile della debolezza umana, ma è anche una forma di consapevolezza della propria nullità di corpo al cospetto dell’eterno. E’ un avvertimento, In ultima analisi, che il nostro creatore, ha deposto nei nostri animi, per ricordarci la transitorietà di questa esistenza e di come essa sia costantemente minata dal peccato. Il peccato è la principale arma del Nemico, esso è persistente ed insidioso, perché persistente ed insidioso è il Nemico.- un Esicasmico, accese dell’incenso all’interno di un aspersorio a forma di teschio, reggendolo fra le mani color della cera, percorse il perimetro della cappella, spargendo l’aroma acre e pungente fra tutti i presenti, gli occhi del teschio ardevano di una luce tremante, come se due pozze di lacrime fiammeggianti pulsassero nelle profondità delle sue orbite vuote. I fedeli si inginocchiarono, le mani giunte, le dita intrecciate saldamente, la fronte china a toccare il bordo delle mani.
-Tutti insieme, recitiamo ora la Conoscenza del Dolore.- invitò Hobelio, levando le braccia In direzione della croce. In coro, le voci intonarono la breve, sofferente preghiera funebre, alcuni, secondo la tradizione più fondamentalista, accompagnavano la cadenza con leggeri colpetti del capo sulle mani giunte. Gualtiero Turnàd, recitava meccanicamente, lanciando occhiate laterali per sbirciare le movenze degli Esicasmici, il portatore d’incenso, proseguiva la sua camminata circolare mentre gli altri si erano inginocchiati attorno alla salma, pregando con i loro movimenti ondeggianti; si stava domandando, cosa avrebbe detto il demone che aveva fatto evocare, se lo stesse osservando In quel momento. Sono un discolo. Si disse Gualtiero dominando un sorriso, un birichino, un monello dell’ultraterreno che prega e pratica per la salvezza della sua anima e uccide e tradisce e si danna per il piacere del suo corpo. …E QUINDI TI PREGO O MIO CREATORE, FAI CHE LA CONOSCENZA DEL DOLORE SIA LA MIA FORZA PER LA PRETESA DELLA BEATITUDINE. AMEN
. La preghiera era finita, i capi li levarono verso il pulpito, occhi, fissarono Hobelio abbassare le braccia e appoggiarsi al leggio, proteso verso la platea: -..E quindi ti prego o mio Creatore, fai che la conoscenza del dolore sia la mia forza per la pretesa della Beatitudine.- Ripete con tono accademico la strofa conclusiva. -Vi invito ora più che mai, a meditare su queste ultime parole, perché la loro potenza si estrinseca proprio sotto il lutto. Il corpo del nostro fratello ha cessato di vivere, la mano perentoria e fulminea della morte lo ha privato del dono supremo del Creatore e lo ha separato dai suoi cari, dai conoscenti , da tutti noi. Era un uomo di chiesa, un giusto, un sapiente, un Esicasmico, al quale la Chiesa, ha chiesto i suoi pregi per il bene supremo. Ha sicuramente conosciuto le gioie della fede e In ultimo, il Dolore. Ora egli è sulla strada della beatitudine, sta attraversando il mistico corridoio di luce, la sua anima sta ascendendo all’eternità del paradiso del Creatore. Soltanto la più indescrivibile delle gioie per lui, per sempre. Noi soffriamo perché siamo esseri umani, ma la fede, nella sua inossidabile saggezza, ci afferma che dopo, forti, In essa, dobbiamo sostituire la sofferenza alla gioia, gioia per un fratello che si ricongiunge al cospetto di colui, tutta la sua vita terrena ha sacrificato, con rinunce che non tutti gli uomini sono disposti a subire. Dobbiamo essergli riconoscenti, per quel che ha fatto, per tutto quel che è stato il Cardinale Viro Brunello Zock.- l’organo a canne, posizionato alle spalle dell’altare, intonò un “La Gioia del Creatore” e tutti i presenti si levarono In piedi applaudendo la dipartita del defunto. Un prete, tirò dei cordoni dorati e i tendaggi che ricoprivano la cupola di vetro della cappella, si aprirono In spicchi soffici, lasciando penetrare la luce del giorno In raggi pallidi e lattiginosi, illuminando la piattaforma dell’altare; da piccole gabbie di legno, colombe bianche furono fatte volare verso lo sfogo del lucernario. Gualtiero Turnàd, sentì, In quell’istante così sacro, un frastuono assordante, un tuono improvviso e violento, che lo fece sobbalzare di spavento, facendogli stringere i denti fino a farli scricchiolare, le mani avvinghiarsi al bordo della panca che aveva di fronte, le nocche sbiancate, i polpastrelli compressi, le orecchie traumatizzate da quell’intrusione fulminea. Gli occhi sbarrati verso il volo delle colombe, Gualtiero, ammutolito, fissava lo svolgersi del rito, indifferente al suono che lo stava terrorizzando. La luce del giorno scomparve, facendo calare delle tenebre di pece nella cappella. Le colombe furono inchiodate al marmo del pavimento da spilloni scaturiti dal nulla, il sangue vermiglio chiazzava il candore delle loro ali oltraggiate. Tutto attorno a lui era paralizzato In una normalità che non aveva ragion d’essere: Al suo fianco, Ofelia sgranava un rosario, la prozia si tamponava gli occhi gonfi con un fazzoletto che sembrava odorare di sterco. Il prete incensiere proseguiva imperterrito la sua opera di aspersione, camminando In tondo come un demente nella cella di un manicomio, gli altri Esicasmici continuavano la loro preghiera silenziosa, Hobelio, dall’alto del pulpito, si stava masturbando con foga. Esterrefatto, Gualtiero, osservava il movimento ritmico e spasmodico della mano sotto la tunica, gli occhi grigi del Cardinale, sbarrati su un panorama di lussuria intima e personale, il labbro inferiore morso dai denti superiori, come un adolescente scosso dal proprio autoerotismo e la fantasia spronata nel disperato tentativo di soppiantare la realtà. Il chiasso apocalittico che ammantava la scena, crebbe d’intensità, era il concerto senza note di una fabbrica impazzita, un titanico congegno meccanico, essudante olio nero e ingranaggi taglienti che li lanciava In una sfrenata corsa produttiva, era l’ansimo di un demone industriale, che mangiava bulloni e acciaio rovente ed eruttava con il tonfo di una pressa, bestemmie ed improperi. Gualtiero aveva l’istinto di tapparsi le orecchie e urlare lo strazio dei suoi timpani percossi da martelli di fabbro, ma una volontà inaspettata, proveniente da lui stesso, si rifiutava di far staccare le dita dal legno della panca. Sottili lagrime insapori, scivolarono lentamente sulle sue guance, fino agli angoli della bocca contratta, le labbra inaridite. Hobelio, raggiunse l’orgasmo con un impeto selvaggio, la schiena inarcata, il sudore che chiazzava la tunica, bagnava il volto come se fosse sotto una pioggia sottile. La mano ferma. Hobelio eiaculò uno schizzo di sostanza densa e scura che imbrattò le pagine della Sacra Enciclopedia. Seguì uno sbuffo di fumo nero che ascese al lucernario. La salma di Zock invece tremava, come scossa da una improbabile scossa tellurica che interessasse solamente il suo giaciglio. Tremava con scosse brusche ed improvvise, con gesti spasmodici del capo, delle membra, del corpo stesso, quasi contenesse dei serpenti imbrigliati nelle sue viscere. I punti dei chirurghi funebri saltarono via come elastici esausti, i tendini riaffiorarono In bianche cordicelle sotto la pelle cerulea, i muscoli si afflosciarono e i denti si snudarono In un nuovo e più ghignante rigor mortis. Gli occhi erano biglie bianche fisse sul nulla. Dalla bocca storta, dal naso, dalle piccole orecchie, dai dotti lacrimali e da ogni orifizio della sua passata persona, prese a fuoriuscire un liquido nero, simile a inchiostro di china. Colava oscenamente con regolarità e stuprando le leggi della fisica, cadeva verso l’alto, salendo al lucernario buio. Come l’osceno liquame del morto saliva, sangue ignoto scendeva, gocciolava dalle pareti curve, sporcava le immagini dei santi e dei filosofi, si diffondeva sulle lastre del pavimento, inzuppava i tappeti dei gradini, si diffondeva sotto i piedi dei presenti, pioveva In gocce leggere e colorate sulle spalle chine, sui capi luttuosi, sui colletti immacolati, sulle camice di seta. L’Inferno stesso stava leccando il mondo di Gualtiero Turnàd; con la stessa foga famelica di una fiera, intenta ad assaporare le carni succulente della preda appena uccisa.
Gualtiero Turnàd si sentiva una muta statua di pietra, costretta ad assistere esangue all’Apocalisse. La percezione dell’evento soprannaturale lo raggelava In una contemplazione impotente e spiazzante che lo rimandava con la memoria alla notte della propria profanazione. Un eterno dannato ritorno ad una sinfonia di sentimenti e sensazioni che Il ritorno alla realtà della luce del giorno, aveva quasi relegato a una dimensione onirica, intima e segreta. Con uno sforzo immane, costrinse la testa e ruotare per guardasi indietro e cercare lo sguardo di Leuse. Lei era pochi banchi di distanza dalla sua posizione, ma appariva lontana e remota come Il resto dei partecipanti al cordoglio della famiglia Zock. Gualtiero cominciò ad avvertire Il freddo adombrarsi del senso di una solitudine così spiazzante ed angosciosa che un moto di pianto scosse timidamente la sua gola con una stretta lieve ma dolorosa. Era veramente isolato In quell’incubo così aberrante? Era veramente abbandonato anima e corpo In quel palpito maligno, profanante una dimora di Dio e Il suolo patrio dell’uomo figlio suo?
-E’ un invitato speciale, esimio Cavalier Turnàd- sussurrò una voce suadente, talmente prossima al suo orecchio sinistro da avvertire gli sbuffi tiepidi dell’alito del suo invisibile interlocutore. Gli occhi saettarono verso Il soggetto che stava richiamando la sua attenzione, con un tuffo al cuore, provocato dalla sorpresa e da un rinnovato spavento, vide Il Cardinale Hobelio, con Il suo profilo rapace e gli occhi color del ferro, un sorriso sottile e tagliente come una lametta da barba. Con noncuranza, si stava nettando le mani imbrattate dal frutto del suo osceno onanismo mentre contemplava Il dilagare dell’incubo nella cappella come un capomastro ammira Il procedere dei lavori sotto la sua direzione. –Non si preoccupi. Per tutti gli altri presenti, nulla è mutato, io sono l’austero officiante, i miei confratelli pregano In meditazione profonda, lei e tutti voi benefattori del Regno, seguite In rispettoso silenzio lo svolgersi della cerimonia. Lui..- accennò col capo all’incensiere che imperterrito e maniacale percorreva In tondo Il suo tragitto, Il ritmo dei passi accelerato -..Gira.- proferì quell’ultima parola con un tono di sollievo, come se l’equilibrio di tutta la situazione poggiasse su un pilastro creato dal suo moto cieco; l’odore dell’incenso s’intensificò nelle nari di Gualtiero, come a sottolineare la criptica importanza dell’azione In corso. Il Turnàd, scoprì che ora riusciva a muoversi con disinvoltura, si voltò verso Il Cardinale, certo, che Il confrontarsi con una figura tangibile, l’aiutasse a riacquistare un controllo e una sicurezza che fino a quel momento sentiva estremamente labili e carenti. Deglutì impercettibilmente, infilò i pollici nel panciotto di velluto, per riappropriarsi di un gesto smargiasso e nuovo coraggio, poi parlò: - Perché tanto disturbo?
-Definiamola una specie di anticamera. Un aperitivo di benvenuto. Stanotte ci risulta che ha un impegno piuttosto importante.- Gualtiero risentì con la memoria la voce del demone nelle segrete dell’Omnialudo. –E’ informato, Monsignore.- Il tono era neutro, atono, teso a lasciar trasparire un’assoluta indifferenza alla rivelazione.
-Naturalmente. Io sono Il nuovo evocatore. Succedo al buon, Caro, vecchio sodomita Brunello. Grazie al suo intuito.
-Continuo a non capire questo spettacolino.- fu sottilmente soddisfatto dell’uso del diminutivo In quel frangente. Hobelio, con un gesto parve comprendere tutta la scena che continuava a svolgersi attorno ad entrambi: Il sangue che chiazzava i fedeli, la nera essenza di Zock che ascendeva al Caos, Il frastuono che vibrava nelle ossa. –I Demoni sanno essere plateali come pochi, nell’Universo.- disse con tono da cicerone –Nei momenti appropriati, l’apparenza è un’arma fondamentale nelle loro mani. Sanno essere efficacemente teatrali, attori. Ingannatori.
-Anch’io.- replicò asciutto, Gualtiero.
-Certamente. E’ un uomo.- continuò Hobelio –Il demone che Il mio predecessore ha evocato per lei, è un’entità piuttosto potente. Le sue mire devono essere considerevoli. Un consiglio. Ha, tra le mani uno strumento assai pericoloso da gestire, si muova con tutta la prudenza possibile. Stasera, verrà a farle visita madama Leuse. Sarà una preziosa assistente. Le dia ascolto. In tutto.- Gualtiero annuì lentamente, osservò di nuovo la donna alle sue spalle e spinto da una curiosità candida e spontanea si ritrovò a chiedere: -Se non seguissi i vostri consigli?- Hobelio sorrise come di fronte alle ingenuità di un fanciullo ignaro dei fatti della vita: -Prenda tutto quel che le sta accadendo intorno. Lo peggiori per un numero infinito di volte, abbandoni anche solo l’idea del pensiero della speranza. Ecco: una briciola della dannazione cui andrebbe incontro. Una briciola infinitesimale.
-Vorrebbe spaventarmi?
-Oh no.- Hobelio scosse Il capo con divertita rassegnazione –Non sarei minimamente In grado di descriverle quel che può capitare a Chi si lascia imbrigliare. Nessun essere umano può essere capace.- rise sgradevolmente, snudando i denti In una parodia d’un sorriso:- Ovviamente Chi ha provato, non è certo ancora fra noi per poterlo raccontare.- seguì una pausa, riempita dal chiasso ultraterreno, trapanante ed inarrestabile. Gualtiero cominciava a soffrire di male ai denti, alla testa, alle orecchie. Stridii lancinanti gli facevano strizzare gli occhi, comprimere i denti In un morso cieco, insopportabile. Tonfi gravosi, battiti crudeli, percussioni allucinanti che vibravano colpi nauseabondi nell’addome, rimbombavano nei visceri del corpo. Lottava contro l’istinto di urlare, compiva sforzi immani a mantenere la sua posa di fronte al Cardinale. Questi lo fissava tagliente, come se stesse leggendo tranquillamente Il suo disagio e la sua sofferenza come un capitolo particolarmente divertente di un romanzo. –Che ne dice si ci accomiatiamo? Secondo me abbiamo goduto abbastanza della presenza del male, per oggi. No?- Il Turnàd annuì con solennità, per celare Il sollievo che le parole di Hobelio gli avevano trasfuso. Sotto le labbra contratte, si ritrovò l’anello con rubino del religioso, Quello che sigillava Il falso dito. Lo baciò senza esitazioni. Fulmineamente.
Cadde un silenzio palpabile, ovattato. Le orecchie ronzavano nei riverberi dell’incubo sonoro cui erano state sottoposte con martoriante crudeltà. Le dita rilassate, posate le une sulle altre, la bocca socchiusa nel mormorio di una preghiera di commiato. Gualtiero Turnàd, osservante fra gli osservanti, era inginocchiato sulla panca, la moglie a fianco, Il capo coperto dal nero pizzo di uno scialle da lutto. La scrutò, osservandone Il profilo delicato come Quello di una statuina di porcellana smaltata, Il pallore anemico del suo incarnato, accentuato dalla maternità, assieme ad un’inaspettata pienezza dei seni, ingabbiati nel corpino semirigido dell’abito. Un solleticante desiderio sessuale gli fece aumentare la salivazione; Il pensiero della prossima visita di Leuse, gli portò l’inizio di un’erezione lenta e graduale che gli provocò disagio. Si ritrasse da quel pensiero. Attorno a lui, i presenti tornarono a sedersi. Gualtiero si adeguò, sbirciò l’ora. La cerimonia era alla conclusione. I fedeli si alzarono In piedi con un fruscio percettibile di gonne e palandrane, le medaglie e le altre decorazioni di Leone deSpad, tintinnarono come una pioggia di monetine. Gli Esicasmici caricarono In spalla Il feretro ed In silenzio assoluto, uscirono dalla cappella, accompagnati dal suono dell’organo, dai rintocchi delle campane e dai passi timorosi dell’assassino e dei suoi numerosi complici.