domenica 23 ottobre 2011

Capitolo Sesto



Il Turnàd si ritrovò per un istante infinito, privo di parole. Un ammorbante odore di carne bruciata aveva riempito il locale e il calore violento che la caldaia emetteva, pareva esaltarlo. Sebbene quei momenti erano invero alluminati dall’ardore della combustione, Gualtiero si sentiva sprofondato nelle tenebre più opprimenti e assolute. L’eco devastante della voce che lo aveva salutato vibrava ancora nelle ossa, nei denti e nei visceri contratti dall’emozione finché non si accorse di Leuse, improvvisamente prostrata sul battuto della pavimentazione; meccanicamente la imitò. Accucciato, le braccia allungate come il gesto di un anelito teso a qualcosa di tanto irraggiungibile quanto agoniato, si accorse di come il sangue spruzzato dal garzone, avesse disegnato un arco stupefacentemente regolare, come a marcare un confine tra quel misero mondo terreno e la dimensione d’incubi e potenza che intuiva al di là.
La presenza s’espresse nuovamente con fragore doloroso:< HAI CONTRASTATO LA TUA COSCIENZA UMANA FINO A QUESTO PUNTO.
<Ho dato prova della mia...> iniziò a dire Gualtiero. < TACI UOMO! INSULSA FORMA DI VITA. SEI SOLO FANGO DI CARNE E DI SANGUE CHE STRISCIA SU QUESTO MONDO.> il Turnàd sprofondò il volto nella polvere, le mani intrecciate sopra il capo, come a proteggersi da gragnole di detriti che le parole dell’entità scagliavano sulla sua impotente persona. In un ultimo, insopprimibile tentativo di contrastare quella imponente sottomissione, Gualtiero sollevò gli occhi verso la fornace e i bagliori lancinanti che emetteva. Al suo fianco, nella medesima posizione, Leuse gli sussurrava timorosi avvertimenti:< Gualtiero non osare sfidarlo...
<PICCOLO IGNORANTE.> sentenziò la voce. Lo sguardo del Turnàd incrociò per una frazione di secondo due punti luminosi che riuscivano a scintillare di maligna vivacità attraverso le fiamme e un’impressione lancinante lo attraversò come una staffilata, facendogli esplodere minuscole e diffuse scariche di dolore dietro gli occhi, nella testa, lungo le viscere, attraversando il suo organismo, impalandolo  idealmente con l’idea stessa di un tormento che non risparmiava nessun recesso del proprio corpo. La vescica cedette con una desolante naturalezza e un gettito d’urina gli scaldò l’inguine, inzuppando le braghe e colando, sgradevole, lungo le cosce tese. Il bruciore dell’umiliazione lo portò a rannicchiarsi, tremante.
<ORA POSSIAMO PARLARE> sentenziò l’entità.< COSA DESIDERI UOMO PER ESSER GIUNTO FINO A ME?> Gualtiero cercò di ricomporsi almeno per rispondere all’interrogativo; riprese la posa inginocchiata, le braccia di nuovo allungate verso l’arco di sangue.< Potere.> balbettò. < Potere, ricchezza, comando.> fece una pausa, aveva la bocca arsa dalla paura, il cuore martellante. Le dita contratte nella terra annerita, rimanevano artigliate nell’inconscio tentativo di mantenersi ancorato alla ragione, in procinto di sfuggire nel limbo di un luogo remoto e inaccessibile. < NON POSSIEDI GIA’ TUTTO QUESTO?> la domanda suonava quasi normale, donando a quella terribile conversazione un tocco di banalità che sul momento rassicurò il capitano d’industria. Il Turnàd scosse lentamente la testa, poi nuovamente, con una determinazione più accentuata, un diniego nervoso, con una mossa del capo più veloce e rabbiosa:< Non abbastanza.
A quel punto, il rombo della combustione che riempiva il locale, parve smorzarsi e il frastuono titanico che gli squassava l’anima ogni volta che l’ entità proferiva parola, scomparve d’incanto, riempiendogli le orecchie con un silenzio perfino fragoroso, in contrasto alla condizione precedente.
< Gualtiero Turnàd.> si sentì chiamare. < La prego, si alzi. Ora dobbiamo parlare d’affari.> la nuova voce suonava sospettosamente innocua, perfino gentile; aveva il tono un maturo uomo di mondo che invitasse un suo pari a bere cognac e fumare un sigaro conviviale.  Gualtiero, in piedi, sporco, impolverato, tentò di rassettarsi al meglio, chiudendo la palandrana nel tentativo di nascondere le chiazze umide sui calzoni. Il calore lo faceva sudare copiosamente, rivoli salati gli attraversavano la fronte e le guance, la sua ombra con quella di Leuse, si contorceva contro le pareti, una sorta di danza dove le immagini che osservava, si accartocciavano e contraevano come un tenebroso pulsare di presenze sconosciute. La voce ridimensionata della presenza, parlò ancora, da un  punto non bene identificato, immerso nel buio del locale, apparentemente alla destra del capitano d’industria:< Sono qui, Gualtiero, prego.> Leuse, che fino a quel momento era come scomparsa dalla percezione della realtà del Turnàd, ritagliò nuovamente la sua esistenza con un singulto aspirato, quando i passi malfermi di una figura estranea, s’udirono vicini a loro. Appariva come un vecchio, abbigliato con calzoni neri e una palandrana grigia; un lezzo di muffa e marciume aleggiava tutt’attorno. Le vesti erano lacere e impolverate, leggeri drappeggi di spesse ragnatele, penzolavano impalpabili lungo le maniche sdrucite, le spalle secche e curve, perfino dalle ispide e incanutite basette. Il Turnàd represse l’istinto di allontanarsi ma agghiacciato, si fissava sul volto che gli stava rivolgendo la parola, riconoscendone dei tratti terribilmente famigliari. Guardò meglio, incredulo: stesse labbra sebbene rinsecchite, stesso naso imponente, stessa espressione, fissata come nel granito di un’immagine araldica. Se stesso. Cadavere.
Il morto alla sua presenza gli elargì un sogghigno mentre accennava un rigido inchino e si toglieva la tuba rosicchiata dalle tarme; i denti si snudarono sulle labbra tirate, gialli e spezzati, un luccichio innaturale, s’accese dalle pozze profondamente nere che scavavano le orbite apparentemente svuotate. Il Turnàd strozzò un urlo d’orrore e raccapriccio e fece per voltarsi dall’altra parte, nel tentativo vano di sottrarsi alla visione ma l’altro corpo, lesto e fulmineo, gli fu addosso in un istante, afferrandogli con dita adunche la testa, costringendolo così a ruotare nuovamente lo sguardo davanti all’ interlocutore che pretendeva la sua massima attenzione:< No.> sibilò la presenza.< Guardami, Gualtiero Turnàd; guardami bene perché ti sto mostrando quello che non sarai più.
<Mai più?> ripeté, semi strozzato il Turnàd. Il cadavere scosse il capo, nel farlo, sembrava d’udire lo scricchiolio sabbioso delle vertebre cervicali irrigidite, un suono insopportabile, come il macinar d’ossa d’innocenti. < Chiedi tanto, pretendiamo tanto. Dare e avere no? Una legge inderogabile del mercato.
<Cosa? Cosa volete? La mia... Anima?> le dita gelate mollarono la presa e spintonarono leggermente il Turnàd, come a voler sottolineare la sufficienza che il ricco ispirava.<L’anima...> ripeté il morto.<... Quella ce l’hai data nel medesimo istante che hai sgozzato il tuo parente, all’Omnialudo ...
< Le mie ricchezze...?> la voce era calata di un’ottava, bassa, circospetta, timorosa. La cosa ridacchiò, un rumore simile a ghiaia sgranata sul ferro, dalla bocca fetida, uscì un puzzo di carne marcia, soffocante:< Solo un uomo poteva esprimere un simile timore! Cosa pensi che possiamo farcene, del tuo denaro, nel nostro piano? No no, tranquillo, sguazza pure nelle tue cose, nei tuoi valori. A noi interessa la corruzione.> La figura si chinò a terra lentamente, brancolò con una mano per terra fino ad afferrare uno scarafaggio nero. L’insetto, grosso e lucido, muoveva frenetico le antenne, nel tentativo di decifrare, con la sua limitata capacità sensoriale, quel che si trovava davanti. Le zampe si muovevano sulla carne fredda e grigia del braccio finché, con la punta di un mignolo, il simulacro del Turnàd privo di vita, tracciò sul carapace chitinoso, un ghirigoro. Lo scarafaggio s’irrigidì e con velocità innaturale, iniziò a sciogliersi e squagliarsi in una poltiglia nera come inchiostro e a colare nella polvere, imbrattando la mano ossuta. Con noncuranza, l’essere si pulì sul bavero della palandrana, si grattò un orecchio, rimuovendo da esso un piccolo verme giallo e indicò infine il Turnàd vivente, appellandolo con voce perentoria e improvvisa:< Tu avrai due figli. Uno a distanza di un anno dall’altro. Due tenere e candide vite il cui destino dovrà necessariamente legarsi al tuo. Uno proseguirà la tua opera, l’altro si dimostrerà diverso e potrà diventare uno spiacevole intralcio ai vostri e nostri piani. Dovrai agire di conseguenza.
< Dovrò uccidere...
<Piccolo uomo banale... Dovrai viverci assieme, invece, seguire e valutare prima di agire. Uccidere. Per favore! Dannare. Questo è il nostro stile.
< Ma...
< Tranquillo Gualtiero. Tieni a bada la tua insopprimibile voglia di fare e agire. Ogni gesto ha il suo tempo, ogni azione il suo momento. Saprai quando agire. Per il come... Non ora. Allora, vedrai e saprai.