giovedì 1 settembre 2011

Prologo

Si chiamava Gualtiero Turnàd Henke. La sua statura si poteva riassumere come quella dell’uomo più ricco e potente del regno; ovviamente dopo la famiglia reale e l’Arcipapa. Suo padre, Derek Turnàd, si era unito in matrimonio con la primogenita di Vladimiro Henke, il signore e padrone delle acciaierie Henke-Moloch. La nascita di Gualtiero aveva consolidato un possente impero economico. Prima della guerra, il nonno Yan, intraprendente fabbro e meccanico, aveva rilevato una grossa officina da un ex ufficiale d'artiglieria, storpiato durante la campagna d'Incirlikia e indebitato dal gioco d’azzardo. Annessi all’attività, da scaltro e prudente artigiano qual era, Yan, acquisì tutti i progetti non ancora registrati dal debitore. Tra questi, i piani di costruzione per un nuovo modello di cannone a tre canne rotanti. In quei tempi assetati di sangue, un’arma nuova, potente e sofisticata, rappresentava un affare irresistibile, di fronte alla realizzazione del quale, non esistevano remore di nessuna natura. La maggior parte degli industriali lamentava un calo della produzione a causa della carenza d’operai: tutti gli uomini validi si trovavano sui molteplici fronti del conflitto. Yan Turnàd scavalcò l’ostacolo studiando delle catene di montaggio estremamente semplificate e incominciò ad assumere donne, vecchi e bambini dall’età di sette anni. Iniziò così la genesi del cannone Turnàd. Con grezza e sanguigna lungimiranza, il robusto e burbero Yan, si preoccupò di promuovere il suo prodotto sfruttando le conoscenze dell’ex ufficiale d’artiglieria, salvato dal denaro del Turnàd. Il cannone vinse una prima commessa di cinquecento esemplari da inviare a scopo valutativo sul fronte orientale. Unica postilla: consegna tassativa entro un mese dalla stipulazione, pena l’esclusione dalla commessa. Il Turnàd accettò senza esitazioni e incrementò le assunzioni spostando l’età a sei per i bambini e a settanta per i vecchi. Due giorni dopo la firma della bozza con il regio esercito, nelle officine Turnàd, lavoravano settecento operai. La produzione era a ciclo continuo, i turni organizzati in trance da dodici ore; paga oraria: cinque scudi per le donne e due scudi e mezzo per vecchi e bambini. Su quel mese da supplizio di Tantalo, circolavano molteplici, tristi racconti, ma mai nessuno confutato da testimoni o inchieste. Si mormorava di un’altissima percentuale d'infortuni, alcuni mortali; di come il lavoro fosse sorvegliato, costantemente, da capiturno di fiducia. Perfino le pause per l’espletamento dei naturali bisogni fisiologici, erano cronometrate, imponendo limiti assurdi, pena, micidiali decurtamenti sulle paghe. Chi abitava nei pressi delle officine, era pronto a giurare che la notte c’era da aver paura.
Gli stabilimenti ansimavano come un vecchio titano asmatico, le immense fucine dove erano colati gli elementi, soffiavano un alito rovente, che ricordava la gola di Cerbero. Tutte le strutture circostanti, erano ammantate da un alone rossastro, che rendeva soltanto la notte più cupa. Tra il clangore dei macchinari, lo schianto apocalittico delle presse e il rombo degli alimentatori a carbone, che muovevano le catene di montaggio, tendendo l’orecchio con attenzione, si potevano intuire lamenti strazianti, urla di dolore e grida rabbiose, schiumanti insulti ed esortazioni. Secondo qualcuno, s’era anche avvertito lo schioccare di una frusta.
Naturalmente, la maggiorparte delle voci, furono accantonate come nuovi, superstiziosi ricami di un popolino misero e ignorante, spaventato dalla fama di duro lavoro che l’assunzione alle officine Turnàd comportava. Solamente un ispettore sanitario, distaccato presso la divisione traumatologica del Regio Ospedale Civico di Cadmia, aveva cominciato a nutrire delle perplessità riguardo alla qualità del lavoro nelle officine. Nel rapporto informale che decise di stilare, dopo l’ennesimO caso d'amputazione, propose cautamente l’idea di una visita di controllo sul luogo di lavoro.
Il destino, purtroppo, portò la guerra anche nella vita del dubbioso dottore e pochi giorni dopo la stesura del documento, in seguito alle pesanti perdite che un’offensiva del nemico lungo le rive del fiume Cobaltoso, aveva comportato; egli fu richiamato d’urgenza come ufficiale medico.
Alla fine, i cinquecento cannoni furono consegnati. Nessuno notò; o meglio, preferì ignorare le case abbandonate d'ex operaie o vecchi dipendenti. Secondo la direzione, quei preziosi lavoratori, raggiunte le cifre prefissate, avevano deciso di emigrare verso lande più pacifiche.
A richiesta dello Stato Maggiore, il cannone Turnàd ebbe il suo battesimo del fuoco sulle pianure di Tombar, sul fronte orientale. Due batterie d'artiglieria campale, furono equipaggiate con il nuovo pezzo. L’assalto del nemico fu violento e veloce, con un susseguirsi di cariche di cavalleria e assalti di fucilieri; alle loro spalle, i boati delle bombarde incirlike, graffiavano il cielo con rasoiate incandescenti e l’aria era scossa dalle urla della battaglia. Le batterie aviane incassarono le prime salve, i serventi caricarono le canne e gli ufficiali, gli occhi incollati ai binocoli e mani guantate, levate per l’ordine fatidico, prendevano le distanze azimuthali. Poi fu fatto fuoco. In triplice tuono, i pezzi eruttarono comete ruggenti. L’orizzonte del campo di battaglia, avvampò per un fatidico secondo, come un enorme fiammifero appena sfregato. E nuovamente. E nuovamente. Sulle pianure di Tombar, fu sancita una vittoria schiacciante, due soli cannoni Turnàd accusarono difetti nel funzionamento per motivi tecnici indipendenti dalla volontà del costruttore. Alle squadre perite, fu riconosciuta la medaglia alla memoria.
Così, la ricchezza inondò Yan Turnàd, come l’acqua sul capo di un battezzato. La violenza dell’uomo sancì il suo potere. Le porte di un universo che fino allora aveva soltanto intuito, gli si aprirono con una naturalezza inaspettata; senza che Yan se ne fosse effettivamente reso conto, da quel burbero provinciale, sempre pronto a spaccarsi la schiena e a farla spaccare a chiunque gli fosse a fianco, ora, era diventato un uomo potente e rispettato, ossequiato e riverito come un cardinale. La nuova condizione non lo colse impreparato. Iniziò, sfruttando uno spirito d'adattamento non comune, a frequentare gli ambienti altolocati per sfruttarne le potenzialità. La sua presenza era ormai quasi una costante matematica nelle complesse equazioni delle relazioni sociali di Cadmia. Presenziava a feste e ricevimenti; salotti mondani e incontri informali nel sontuoso Bar della Borsa, sforzandosi di assimilare la metafisica degli investimenti, le regole e i rituali che il culto per gli affari, imponevano. Durante questa fase, di intensa incorporazione nel tessuto alto borghese, incontrò Lara Metaberga. Una bella donna, ammirata nell’Ambiente. Aveva fama di persona intelligente e senza la minima remora nel dimostrare antipatie e simpatie. Una donna moderna, che si era formata grazie a un'adolescenza passata orbitando attorno al pianeta della corte, grazie alla presenza nel suo sangue di preziose gocce di un ramo cadetto affiliato alla famiglia reale. Aveva trentadue anni e non ancora marito. Era un’anomalia all’interno dei rigidi schemi conservatori della società aviana e come tale, considerata una figura da rispettare per via del potere che aveva alle spalle ma, contemporaneamente, da trattare come un pericoloso elemento anticonvenzionale. Era preferibile l'amicizia piuttosto che la sua mano. Suo padre era un ingegnere. In gioventù, membro di un gruppo di coraggiosi pionieri dello sviluppo ferroviario d’Avia. Yan Turnàd si ritrovò immediatamente attratto, interessato alla nuova conoscenza. Lara Metaberga era un’anomalia, come lo era lui e in più, possedeva quel retaggio che si riteneva ancora fondamentale all’interno del regno e tra le fila onnipresenti della Chiesa.
La pace era alle porte, la sete di sangue e distruzione tipica dell’uomo, si stava placando e il popolo, ora, aveva voglia di rincantucciarsi per piangere i suoi morti e leccarsi le ferite. Avia portava inoltre, di fronte al mondo, il vessillo della vittoria. L’ebbrezza della gloria era un linimento prodigioso. Yan percepì una stagione infruttuosa per la sua fabbrica di cannoni. Iniziò così a frequentare, con la discrezione tipica della sua natura provinciale, la magione dei Metaberga, intrattenendosi piacevolmente con madre e figlia e intavolando solide prospettive d’investimento al padre. Nell’arco di quattro mesi, mentre ancora per le strade garrivano le bandiere rosse e blu del regno d'Avia, alcuni stabilimenti Turnàd, furono riconvertiti. Le strade, erano piene di reduci bisognosi di un lavoro e il paese aveva l’esigenza di un rilancio per tamponare la crisi portata dal recente conflitto. C’era bisogno di dinamismo. Le nazioni richiedevano maggiori contatti per consolidare le alleanze strette dalle armi. Il soldo doveva sancire. Le officine metalmeccaniche Turnàd iniziarono a costruire locomotive. L’intero continente divenne più vicino, scambi e incontri; vendite, importazioni ed esportazioni aumentarono vertiginosamente, creando così un nuovo modello d'economia, più veloce. Boothe non era più quello stato nordico e remoto e la Magonia perdeva la sua esotica lontananza. Simile alla cura per un gigante smembrato, le ferrovie dei Metaberga, attraversate dalle locomotive Turnàd, ricucivano un continente culturalmente omogeneo con strade ferrate e convogli sferraglianti. Lara e Yan si unirono in matrimonio su un lussuoso convoglio, allestito per l’occasione e sposati dal Cardinale di Cadmia, monsignor Orte, con il bene placido trascritto su pergamena e firmato di proprio pugno dall’Arcipapa in persona.
Dalla loro unione, nacquero due bambini. Derek e Abel. Il piccolo Abel non ebbe la fortuna di giungere a età adulta: si spense serenamente nel sonno, nella sua lussuosa culla di pizzi e trine. Come unico rampollo del clan, Derek crebbe circondato di cure e attenzioni. Era un gioiello prezioso, destinato a tenere saldamente le redini dell’impero economico e traghettarlo gloriosamente attraverso il nuovo secolo. Frequentò scuole facoltose e si formò caratterialmente tra salotti mondani, battute di caccia, aperitivi tra i saloni riccamente stuccati dei bar del centro città. In lui, finalmente, Yan, vide un proprio alter ego culturalmente più assimilato all’ambiente che la ricchezza gli aveva permesso di appartenere. Dentro di se, però, Yan soffriva il divario sociale e culturale che nonostante tutto, avvertiva nei confronti di persone la cui ricchezza e il cui potere, erano spiriti che aleggiavano attorno ai loro nomi da secoli. Si sentiva sempre il solido, rozzo, sanguigno provinciale la cui infanzia rammentava ancora fame e umiltà. Nelle figure di sua moglie e suo figlio, invece, sentiva di possedere un diverso e più tangibile lasciapassare. Derek, soprattutto, sarebbe stato il suo nuovo io, il Turnàd legittimato alla ricchezza e all’influenza; colto, raffinato, sottilmente ma implacabilmente spietato. Derek Turnàd non sarebbe stato più additato come quell’arricchito senza nobiltà che per forza di cose poteva sedersi nei club, guardandosi attorno come un alieno diffidente. Derek apparteneva all’Ambiente e niente e nessuno poteva obbiettare. Giocava a tennis con i figli di quelli che segretamente n’avevano disprezzato il genitore, era invitato alle loro feste, ubriacandosi dignitosamente in loro compagnia. Era un nuovo punto nel ricamo dell’alta borghesia aviana e un potenziale membro della nobiltà.
Yan Turnàd, fece appena in tempo a vedere il suo rampollo fidanzarsi con Lya Henke. Era la figlia primogenita di Vladimiro Henke, capitano d’industria, re delle acciaierie Henke-Moloch. Non era particolarmente bella, assomigliava al padre nel mento poco pronunciato, nello sguardo ostile e nel volto lungo, vagamente cavallino, ma gli occhi erano chiari e vivaci e possedeva un senso pratico degli affari tale da farle comprendere l’importanza della fusione tra le acciaierie del padre e le officine meccaniche dei Turnàd. Accettò di buon grado. Derek era invece bello, coi capelli corvini, i tratti regolari e d’alta statura. Economicamente, la loro unione era un giro di boa colossale. Le acciaierie ora, avevano commesse assicurate vita natural durante. Le officine, possedevano materia prima. Una nuova indipendenza creava nuovo potere.
Yan, fu stroncato da un’emorragia cerebrale nel suo ufficio, intento a supervisionare personalmente i possenti libri contabili del suo impero. Fu ritrovato riverso sull’ampia scrivania d’ebano lucido, gli occhi sbarrati sulle cifre che avevano popolato i suoi pensieri sopra ogni altra cosa al mondo. Le mani, pelose e rapaci, avvinghiate ai bordi; nella destra, stretta ancora una penna stilografica, come se prima di esalare l’ultimo respiro, il suo ossessivo desiderio di proseguire nel lavoro, gli avesse imposto l’ennesima spunta.
Il fruttuoso matrimonio Turnàd-Henke attirò tutto l’Ambiente che contava. Le famiglie non badarono a spese e la lista degli invitati sfiorò quota cinquecento. Capitani d’industria, finanzieri, banchieri, alti ufficiali delle forze armate, cardinali e prelati della Sacra Chiesa Cattolica Draconiana e rappresentanze ufficiali della nobiltà coinvolta sia con il mondo dell’economia che con la famiglia reale stessa. Il rito, in formula solenne, fu officiato nella gotica e imponente cattedrale di San Grifo, a Gorreal, la capitale del regno d’Avia. A sposare i due rampolli, il Cardinale Gauss, primo consigliere dello stesso Arcipapa, nonché confessore privato della famiglia reale. Tutti i giornali dedicarono all’avvenimento titoli in prima pagina. Ogni singolo aspetto della sontuosa cerimonia fu sviscerato con ipnotico entusiasmo e timorosa riverenza, nessun cronista osò accostare toni anche soltanto lontanamente ironici o polemici. L’importanza dell’evento, avrebbe coinvolto tutto il regno se non tutto il continente. Si parlò delle migliaia di rose che avevano utilizzato per ornare i luoghi preposti al rito; della cattedrale, per l’occasione, drappeggiata dagli stendardi del regno; del picchetto d’onore dei dragoni, che avevano contornato la strada verso l’altare. Un solo, tragico episodio rischiò di intaccare la patinata perfezione dell’evento e anche questo, riuscì a esser sepolto dalla rigorosa discrezione che i funzionari della chiesa e del regno adottavano ormai come un’indiscernibile filosofia di vita. Un giovane prete aveva scelto quel giorno di letizia per suicidarsi, impiccandosi con un grosso rosario di legno, alla navata centrale della cattedrale. Nessuno parve domandarsi com’ebbe fatto a raggiungere l’apice dell’arco senza che lì vicino fossero disponibili strumenti per salire quali scale o corde. Ufficiosamente, qualcuno, emotivamente turbato dal fatto; aveva accennato alla natura macabra del ritrovamento, poiché il rosario, stretto al tenero collo del ragazzo, aveva iniziato a inciderne le carni fino a far gocciolare il sangue sul tulle immacolato di una delle damigelle d’onore. Rapidamente, comunque, alcuni dragoni della rappresentanza, sciolsero il cadavere, che fu ricomposto in una bassa cripta di pietra grigia, nel retro dell’altare.
Il matrimonio si officiò come se nulla fosse accaduto.
Pochi mesi dopo le nozze, nacque il nuovo erede.
Gualtiero, ora Turnàd-Henke, era il nuovo timoniere di un possente natante fatto di cannoni, locomotive e acciaio. Ed era solo. Dopo il nonno, anche babbo Derek si spense, consumato dal lavoro e da quei piccoli vizi che adoperava per alleviare il peso della sua condizione di capitano d’industria e sui quali gravava un esclusivo e discrezionale segreto, che soltanto gli uomini del suo rango erano in grado di mantenere. Gualtiero, all’età di quarantaquattro anni, manteneva saldamente la presa; era caparbio e famelico di vita. In società, si presentava esattamente com’era anche nel privato. Era una figura robusta e massiccia, l’aspetto rude su un volto rosso e rugoso, basettoni e mustacchi, ispidi e duri come le setole di una spazzola di ferro. Nella fisionomia, i geni dei Turnàd avevano avuto il sopravvento. Anche il cipiglio era innegabilmente quello stesso che il nonno ostentava sul lavoro. Si presentava perennemente paludato in severi abiti grigi, un bastone di lucido ebano e un carattere fermo e inesorabile, tipico di chi non ammetteva intralci sul suo cammino. Possedeva una forte voce baritonale che riusciva suadente con le donne, attratte dal senso di forza, dalla sua immensa ricchezza e dal suo carisma innato di conquistatore. La scelta per una consorte, scelta che il rampollo aveva procrastinato ormai per troppo tempo, alla fine, cadde sulla giovanissima figlia del banchiere Zock, un influente finanziere della Frolizia. Lei si chiamava Ofelia, aveva appena compiuto diciotto anni e aveva tutti i pregi e i difetti che finivano col presentare le mogli-bambine. Vedeva nel marito una seconda figura paterna, sulla quale fare totale affidamento, sviluppando un morboso sentimento di dipendenza, simile a quello che colpiva certi artisti e gigolo fumando oppio o altri tabacchi esotici. Poco importava se la minuta fanciulla non fosse esattamente l’ideale femminile nella mente del sensuale Gualtiero; era piccola, perfino efebica nella sua magrezza da cerbiatta e il suo incarnato pallido, faceva risaltare lunghissimi capelli corvini, lisci e fini. Gli occhi erano grandi, addirittura enormi sul volto delicato e di un caldo castano pagliuzzato di verde. Era bella, sì, ma di una bellezza fragile come quella di una statuina di cristallo.
Il matrimonio s i celebrò, nella consueta, austera pomposità, nella cattedrale di San Grifo in quel della capitale, al pari di quello avvenuto mezzo secolo prima tra i genitori di Gualtiero. Alla cerimonia, parteciparono tutti i nomi più influenti del regno. Se il nonno Yan fosse stato ancora in vita, avrebbe provato certamente un tronfio orgoglio venato però, ancora, da una punta d’amara insoddisfazione, originata dalla consapevolezza della scarsa presenza di sangue blu nelle loro vene. Nonostante la massiccia frequentazione della varia e altolocata nobiltà, in parte vicina alla casa reale, Nei Turnàd e nelle famiglie che con loro s’erano imparentate, poche, troppo poche goccie di sangue blasonato scorrevano in quelle ricche vene; in tempi votati alla modernità, pieni di meccanica ed elettricità, la nobiltà significava un avvicinamento alla corona reale. Di riflesso, significava entrare in un’orbita divina, che assicurava protezione e autorità, in egual misura calibrati.
Il matrimonio fu celebrato da un parente degli Zock, tal monsignor Viro, un cugino della madre della sposa, il quale aveva scelto l’abito talare per inseguire le sue due più grandi ambizioni: servire e riverire l’Arcipapa e la Chiesa Cattolica Draconiana e passare maggior tempo possibile con i giovinetti del seminario, per i quali nutriva una sfrenata e malcelata passione del tutto adamitica. Questi, era stato messo al corrente del cruccio dei Turnàd e si era prodigato al fine, di omaggiare gli sposi di quello che, in potere suo, era stato il massimo che era riuscito d’ottenere.
Regalò ai Turnàd un marchio; ovvero il diritto di sfoggiare un emblema, un piccolo blasone che distinguesse la loro famiglia dalla normale, ordinaria, alta borghesia. Era, teoricamente, il primo passo per un riconoscimento nobiliare. Con esso, nel migliore dei casi, secondo la regia burocrazia, nell’arco di un’ottantina d’anni, sarebbe seguito un consolidamento, con tanto d’iscrizione all’albo araldico aviano. Gualtiero fu grato del gesto, ma in cuor suo, l’impazienza del conseguimento, stemperava l’importanza del dono ricevuto. In ogni caso, da quel giorno, al posto del semplice monogramma a T, i prodotti Turnàd, avrebbero sfoggiato il nuovo stemma, realizzato da un importante disegnatore, amico degli Zock. Il simbolo, raffigurava un corvo nero che stringeva tra le zampe, una ruota dentata. La ruota rappresentava l’industria, la nuova forza che aveva portato progresso e ricchezza; il corvo, invece, era stata una sottile intuizione dell’artista. Sapeva, egli, che i Turnàd erano originari del Boothe e, nella mitologia dei settentrionali, i corvi erano gli alfieri delle armate degli angeli, erano coloro che accompagnavano i coraggiosi verso il loro destino. Nel bene e nel male.

Nessun commento:

Posta un commento